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Vite di carta. Una cartolina dal passato

Sono perplessa. Le cose che continuano a succedere nel mondo inquietano, non ne trovo una che realizzi quelle aspettative ottimistiche a cui faceva pensare il duro periodo della pandemia: ne usciremo migliori e via dicendo.

E mentre ho in testa immagini storiche della cronaca di questi giorni, re Carlo III nel suo saluto dal balcone di Buckingham Palace o il volto del direttore generale dell’Oms che dichiara finita la pandemia da Covid, mi si parano davanti aggrovigliate tra loro le corsie su cui corrono i fatti grandi e piccoli, brevi e di lunga durata.

Continuo tuttavia  a praticare la narrativa e mantengo la fiducia verso la letteratura. Leggo storie, chissà che ancora una volta non riescano a darmi distanza dalle cose e un po’ di sana presbiopia. Un vedere meglio da lontano che aiuta a dipanare il groviglio.

la cartolina anne berestÈ quello che fa Anne Berest nel suo bel libro La cartolina, uscito presso le edizioni E/O lo scorso anno, quando  ricostruisce  indietreggiando nel tempo la tragica storia della sua famiglia ebrea.

L’investigazione nasce così:  sua madre Lélia ha  ricevuto  nel 2003 una strana cartolina su cui sono scritti quattro nomi, Ephraim, Emma, Noémie e Jacques, che appartengono ai nonni e agli zii morti ad Auschwitz, e da questa traccia così labile solo alcuni anni dopo ella sente di dover avviare la ricerca sul loro passato.

Inizialmente è lei la sola a indagare, poi le subentra la figlia Anne, che ora è divenuta adulta e madre di una bambina. A spingere entrambe è una sorta di voluttà della conoscenza verso il complesso universo famigliare, l’attrazione che esercita su di loro la dinamica storica della shoah che ha fatto scempio delle  vite dei Rabinovitch.

Di Nachman, padre di Ephraim, che un brutto giorno parla ai suoi figli e li spinge a lasciare la Russia, dove sente “tornare nell’aria un odore di zolfo e di marcio” a svantaggio degli ebrei e, nella piccola diaspora che ne consegue, prende la via della Palestina insieme alla moglie e diventa produttore di arance.

Per Ephraim e per la giovane moglie Emma cominciano anni di trasferimenti forzati da un paese all’altro, sempre per la necessità di sfuggire alle restrizioni antisemite ogni giorno più pericolose. Prima in Lettonia, poi in Palestina per raggiungere i genitori, infine nel 1929 a Parigi, dove la famiglia ha modo di radicarsi.

Dove Ephraim si sforza con ogni mezzo di ottenere la cittadinanza francese e di cambiare il proprio cognome per dare stabilità e sicurezza  alla sua attività professionale e agli studi delle figlie Myriam e Noémie, del figlio più piccolo Jacques.

Trascorrono dieci anni di pace prima che la furia nazista invada la Francia e cominci anche per la famiglia di Ephraim l’incubo della persecuzione.

Per Anne e Lélia, che stanno scoprendo quanto grande sia stato il talento dei figli Rabinovitch verso le arti e quale sapore avesse la loro giovinezza parigina, il momento più drammatico è quando si trovano davanti alla loro cattura a opera dei nazisti e poco dopo anche a quella dei genitori: in seguito alla deportazione moriranno tutti e quattro nel lager di Auschwitz nel 1942.

L’unica sopravvissuta è la sorella maggiore Myriam, la madre di Lélia, che ha sposato il figlio del pittore Francis Picabia e ha affrontato gli anni della occupazione tedesca nascondendosi sotto una falsa identità.  Spostandosi in Provenza per prendere parte con lui alla lotta partigiana.

In tutti gli anni che sono seguiti alla fine della guerra Myriam ha parlato molto poco del passato, dei genitori e dei fratelli perduti. Lélia pensa che il silenzio le abbia offerto una sorta di protezione da se stessa, consentendole di andare avanti anche dopo la perdita del marito, di trovare rifugio in un nuovo matrimonio e nel contenitore di una vita normale.

Le rivelazioni a cui va incontro con la sua ricerca fanno, invece, molto rumore: le restituiscono molta sofferenza e col tempo la sfiducia di poter ottenere un qualche risultato. A un certo punto smette di cercare chi possa averle inviato la cartolina e l’indagine viene ripresa da Anne.

Quante sorprese attendono Anne, per esempio quando scopre che il suo nome è anche quello della protagonista del romanzo che Noémie aveva cominciato a scrivere prima di essere deportata. Scopre che le divergenze tra Myriam e Noémie sono le stesse che ha con sua sorella Claire, come se nell’alveo della famiglia si ripetessero temperamenti individuali e pezzi delle parabole di vita.

Al fondo di tutto si domanda cosa significhi essere ebrei, e mentre ne apprende il senso tragico attraverso la vita spezzata dei suoi parenti se lo chiede per sé e per la propria bambina, prendendo nuova consapevolezza delle loro identità.

Alla fine della ricerca viene a sapere chi ha inviato la fatidica cartolina ormai quasi vent’anni prima. Ma se la cartolina è un tassello, il vero puzzle che ora ha davanti agli occhi è quello formato dai Rabinovitch, con i loro talenti e le loro aspettative sulla vita, prima che i fatti della storia le distorcesse e le facesse morire.

Dopo La cartolina ho scelto in libreria un nuovo romanzo, mi è piaciuto il cognome dell’autrice che non conoscevo e via, l’ho comprato. L’ho aperto e sono rimasta impigliata di nuovo nella ricerca delle radici famigliari che l’io narrante ricostruisce con molto pathos.

Quale crescita di consapevolezza attende anche me nel ruolo di lettrice? Ne parlerò prossimamente.

Nota bibliografica:

  • Anne Berest, La cartolina, Edizioni E/O, 2022 (traduzione di Alberto Bracci Testasecca)

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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