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La vita di ognuno, nuova e vecchia che sia, è sempre una promessa, sempre uno sviluppo verso il futuro. Se la vita è appena nata è piena di speranze e tutti sono lì a spianarne la strada, almeno fino a quando uno non decide che la sua strada se la spiana da solo. La delusione non è di quanti avrebbero voluto aiutarlo, ma che alla fine di tanti sforzi si rischi di trovare solo il nulla.
La conoscenza, il sapere, l’istruzione, la curiosità, la meraviglia sono le nostre libertà. Si nasce che è un tutto darsi da fare per assimilare il mondo che ci sta intorno e che ci deve ospitare. E questo è un imparare, un apprendere incessante, spontaneo, naturale.
La stupenda avventura della crescita, del cammino nel mondo di chi nasce è storicamente imbrigliata, mortificata dalle culture e dai costumi sociali, attraverso un’educazione che è ancora un universo di riti di passaggio, obbligatori per essere accolti nell’alveo degli adulti.
L’amore per i nostri piccoli non è ancora così forte da difenderli dai nostri condizionamenti, dalle nostre aspettative, dalle nostre visioni del mondo.
Eppure il rispetto della libertà di ogni individuo ci dovrebbe indurre a diffidare della parola educazione quando si sostituisce all’istruzione, alla conoscenza, all’esperienza, ai processi di apprendimento. Abbiamo un eccesso di cultura dell’adattamento sociale che distrae dai sentieri che conducono ai veri saperi, alle vere conoscenze.
L’infelicità di una classe, di un banco, di una lavagna nera, di una realtà di nozioni in formule bianche e nere, l’anonima solitudine delle scuole, degli apprendimenti gelidi, dei tradimenti del pensiero, della mente, dell’intelligenza. La noia che precipita le sue nubi sul tempo dei giovani, che ne oscura il sole, che ne anticipa i tramonti.
La mano sinistra a scuola non ha mai avuto cittadinanza, è sempre stata mancina, da ricondurre sulla retta via della destra.
Siamo così abituati a vivere le nostre mancanze di libertà, che tutto ciò ci pare normale o per lo meno riteniamo che è sempre stato così. Qui sì l’obbedienza non è più una virtù, come scriveva Lorenzo Milani. Cosa ci sarebbe di così virtuoso nel sottomettersi alle lunghe pratiche di un’educazione che avrà anche cambiato i propri metodi, la considerazione dell’infanzia e dei giovani, ma che, alla pari di quella più tradizionale, tende ancora prioritariamente a formare cittadini fedeli, emozionalmente legati alla cultura e ai simboli del proprio paese o della propria civiltà?
Sarà bello e rassicurante, ma non è virtuoso, perché posto a monte anziché a valle di un processo volto ad impadronirsi dei saperi e degli strumenti culturali che consentano alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi, una volta divenuti adulti, di compiere scelte consapevoli in piena libertà. Le nostre scuole non esercitano la mente e il suo spaziare, le intelligenze e il loro ragionare, se non entro i confini sanciti da quei percorsi di studio che chiamiamo curricoli, ma che del latino ‘currĕre’ hanno mantenuto solo l’etimologia.
Verso dove corrono i giovani che escono dalle nostre scuole? Non certo verso la propria realizzazione, non certo verso ciò che li renda felici, arresi ormai come sono al sistema che li ha educati, o meglio piegati. Fin dall’infanzia a scuola li prepariamo per una società che c’è già stata e per una che, quando anche loro saranno grandi, non ci sarà già più.
Ma nessuno si pone in questa prospettiva, quasi fossimo convinti che meglio del presente e degli insegnamenti tramandati dal passato non ci sia nulla.
Invece il meglio c’è, ed è la cura delle nostre giovani generazioni non per educarli a quello che noi abbiamo deciso di mettergli attorno, ma per fornire loro ambienti ricchi di strumenti e di opportunità d’apprendimento permanente, per imparare ad essere se stessi, a realizzare pienamente la propria personalità, a migliorare per sé e per gli altri il mondo in cui vivono.
Si tratta di un’operazione delicata e difficile che non può essere imbrigliata nello schema di prescrizioni e regolamenti, nella visione angusta di una scuola per classi, corsi, orari, gradi ed esami, inadatta per la sua scarsa flessibilità a forme progettuali e creative di apprendimento condotte dagli studenti stessi.
È tempo per i nostri sistemi di istruzione di evolvere. Di uscire dalla scuola del freddo, delle conoscenze senza calore, incapaci di accendere il fuoco del sapere. Anche gli insegnanti più capaci e impegnati sono in difficoltà a preparare gli studenti per questo tempo nuovo, all’interno di un modello educativo sviluppato per il secolo diciannovesimo. La natura antiquata di questo modello sta causando seri problemi agli studenti, di interesse, di motivazione, di prospettive per il futuro. Oggi, circa un terzo dei bambini di tutto il mondo non accederà mai alle scuole superiori e molti di coloro che giungeranno ad iscriversi abbandonerà prima della fine. Gli altri che ce la faranno ne usciranno senza un’idea di cosa voglia dire istruzione permanente, disimpegnati come saranno ad imparare. Ciò implica una perdita enorme di potenziale umano e un costo economico elevato per la società. Dobbiamo e possiamo fare meglio.
La buona notizia è che in alcuni posti intorno al mondo studenti e insegnanti innovatori stanno effettuando il cambiamento, formando in modo nuovo gli studenti alle competenze che il secolo ventunesimo richiede. Questo sulla spinta delle conclusioni del vertice “Equinox: learning 2030”, tenuto a Waterloo, nell’Ontario, in Canada, ne abbiamo già scritto in questa rubrica. [vedi]

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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