Lasciato il Kirghizistan, la nostra cicloviaggiatrice Valentina Brunet valica il confine con il Tagikistan e noi la seguiamo nel suo affascinante viaggio.
Arrivo in Tagikistan [Qui]. Il primo impatto?
Ho pedalato ancora in montagna, tra un passo e l’altro fino a valle, al lago Karakul di un azzurro magnifico. Avevo trovato compagni di viaggio e quindi ho viaggiato piacevolmente in compagnia. Un feeling particolare c’è stato con Michael, che mi ha ricordato quanto fosse bello l’incontro con un uomo che ti fa sentire attraente, avvezza com’ero ormai a quella vita vagabonda, impegnata nella fatica quotidiana alla ricerca di riparo e cibo, la scoperta e l’osservazione di posti e gente nuova.
Quali immagini affiorano quando pensi a quel Paese?
Ricordo i numerosi inviti della gente a bere il the, le strade impervie in alta montagna, dove ho pedalato in affanno di ossigeno oltre i 4000 metri (4655 m il passo più alto, l’Ak Baital), ricordo anche i militari armati al confine con l’Afghanistan presso il fiume Panj. Ricordo che siamo capitati in un paesino dove tutti indossavano gli abiti della festa per la visita del Presidente, in occasione dell’inaugurazione di una linea elettrica. Un’atmosfera gioiosa, dove la gente ci stringeva la mano con squillanti ‘Saalam’. Ricordo l’incredulità nel vedermi rifiutato il visto per il Turkmenistan e la crisi che ne conseguiva per stanchezza, sfiducia, delusione generale e poco dopo l’abbandono dei miei compagni di viaggio.
Cosa significa pedalare in condizioni di disagio fisico e vulnerabilità, in solitudine?
In certi momenti sembrava impossibile raggiungere la meta, in condizioni climatiche proibitive, che mettevano alla prova il fisico, con un freddo sferzante e un vento che sembrava mi spazzasse via. E’ stato difficile in alcuni momenti trovare il percorso che avevo studiato, dover cambiare piani e affrettarmi per rimanere nei tempi prima che un visto scadesse. Scoppiare in un pianto dirotto per lo sforzo, è stata in un’occasione la manifestazione più significativa della prova alla quale mi stavo sottoponendo. Mettiamoci anche i disturbi fisici come i crampi articolari e intestinali, la nausea, il vomito, che si presentavano di tanto in tanto e rallentavano il viaggio. Ho incontrato un vecchio che mi ha sottoposta a un rituale per la guarigione, borbottando in modo grave formule sciamaniche cerimoniali, credo, agitando dei ramoscelli e somministrandomi una bevanda.
Racconta qualcosa dei tuoi incontri.
Ho incontrato pastori, con i quali ho chiacchierato arrangiandomi con il russo, come in tutte le cosiddette ‘Stans’, le ex repubbliche sovietiche che ho attraversato. I bambini erano giocosi, ma talvolta insistenti nel chiedere dolci e addirittura medicinali, rifiutando il pane che ero disposta a condividere con loro. La gente era impegnata nei campi a raccogliere il grano prima dell’arrivo della neve e tutti erano molto cordiali, sorridenti. Ho incontrato degli operatori della BBC a Bibi Fatima, una località termale molto nota in Tagikistan, con acque dalle grandi proprietà curative, in una caverna con pochissimi spiragli per la luce.
Come hai trascorso gli ultimi giorni in Tagikistan?
Ero sempre in compagnia di altri cicloviaggiatori già conosciuti in precedenza. Siamo arrivati nella cittadina di Qualai Khumb, dove un vistoso monumento con una grande lapide ricorda i quattro cicloviaggiatori sterminati da un gruppo di terroristi. Un altro monumento giace nel punto esatto del tragico fatto, con le foto delle vittime e una bicicletta coperta da tanti nastrini appesi dai passanti in segno di lutto. Nella scritta, la popolazione Tajika chiede che vengano accettate le condoglianze per l’uccisione dei turisti. Sono scoppiata in un pianto dirotto e mi sono sentita vulnerabile, impotente. Ho dovuto poi sbrigare le pratiche burocratiche per il visto turkmeno, non senza imprevisti e incidenti di percorso. Ho salutato i miei compagni di viaggio e ho proseguito da sola per gli ultimi 100 km prima del confine uzbeko.
Cosa ti ha colpito subito delll’Uzbekistan?
Samarcanda, che non è molto lontana dal confine. Ho visitato il Registan, uno dei più rappresentativi edifici della città, di una maestosità impressionante. E’ un complesso di madrase, le antiche scuole coraniche, forse più affascinante di molte strutture e architetture islamiche in giro per il mondo. Ho scoperto poi la presenza di miei connazionali italiani residenti là. Sulla mia strada, nei primi giorni, ho incontrato gente socievole, pronta ad ospitarmi ed esibirmi con orgoglio ad amici e parenti come un trofeo, una cosa rara. Ho cucinato con donne meravigliose e quei momenti sono tra i miei ricordi belli dell’Uzbekistan [Qui]. Ho incrociato anche gente rude e arrogante, indisponente, che frugava nelle mie cose personali con sfacciataggine, non appena mi distraevo un po’.
Com’era il paesaggio?
Le strade e il paesaggio non sono stati memorabili: distese pianeggianti e monotone, pedalate nel freddo e grigiore. Il lago di Aral è stato completamente prosciugato per lo sfruttamento intensivo delle acque destinate all’irrigazione.
Quali difficoltà hai incontrato?
Una per tutte: dopo una mattinata movimentata e colorata al bazar di Urgut, uno dei mercati più grandi dell’Uzbekistan, tra i bracieri dei shashli, gli spiedi di carne, i banchi di plov, riso e pollo con verdure e i manti, i ravioli di carne, al ritorno in ostello l’amara scoperta. La receptionist mi avvisava che il mio visto era scaduto e avrei dovuto lasciare immediatamente l’alloggio per uscire dall’Uzbekistan. Era sera inoltrata e a mezzanotte sarei dovuta essere oltre confine. Ma dove? L’Afghanistan era da escludere per pericolosità, in Tagikistan non avrei potuto, in Turkmenistan occorreva un visto tassativo. Rimaneva il Kazakistan, che avevo già lasciato da un bel po’. Con un taxi sono arrivata alla dogana e, ricaricata la bici, mi sono accodata alla fila di camion in attesa. Nevicava, era l’una di notte e le guardie mi guardavano con gli occhi sbarrati dallo stupore. La mattina, dopo aver dormito in sala d’attesa, ho proseguito per il Kazakistan e dopo pochi giorni è arrivato il nuovo visto per l’Uzbekistan.
Come si concludono il tuo rientro in quel Paese e i preparativi per quello successivo, il Turkmenistan?
Passata la frontiera ho pedalato verso Tashkent. In una cittadina sul percorso, ho chiesto informazioni ad una donna, insegnante di inglese, e mi sono ritrovata nella sua classe di ragazzini a fare lezione da sola, dopo una tazza di the e la sparizione della signora. Mi è capitato anche di fare da modella per Yura, che stava lavorando a un progetto fotografico con una storica macchina anni ’70, proveniente dalla Germania dell’Est. Mi sono diretta poi a Bukhara, una città molto curata, meta di molti cicloviaggiatori. Pedalando gli ultimi 700 km sono arrivata alla dogana, pronta per immergermi in un’altra avventura. Turkmenistan e Iran mi stavano aspettando.
Segui tutti i lunedì su Ferraraitalia le interviste a Valentina Brunet, rilasciate durante l’intero percorso.
Leggi tutte le puntate precedenti nella rubrica Suole di vento
Liliana Cerqueni
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Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani. Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito. Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.
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