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9 Settembre 2018

Il ritorno

Tempo di lettura: 10 minuti


racconto di Maurizio Olivari
foto di Giordano Tunioli

Lo speaker del treno Freccia Rossa annunciava: “prossima fermata Ferrara”.
Mauro tolse lo sguardo dal libro che stava leggendo, per guardare dal finestrino l’avvicinarsi di quella che era stata la città della sua infanzia.
Nato nel 1944, aveva vissuto nella città estense fino ai dieci anni, frequentando prima l’asilo dalle suore del Sacro Cuore in via Borgo di Sotto, poi le scuole elementari all’Alda Costa di via Previati.
Il padre, barista e cameriere, faticava a trovare un lavoro stabile e decise con la moglie di tentare la fortuna all’estero, anche perché in Italia non gli era rimasto nessun parente. Gli ultimi erano morti durante un bombardamento che aveva colpito la città, in particolare in corso Porta Po.
Con la moglie e il figlio, raggiunse uno zio emigrato in Argentina prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Riuscì a fare fortuna, nel settore della ristorazione, con l’apertura di un bar in uno dei rioni italiani di Buenos Aires. Gli diede un nome che lo teneva un po’ legato alla sua città d’origine: Estense Bar.
Mauro dopo gli studi alla scuola alberghiera, sviluppò l’attività di famiglia, aprendo una serie di locali nelle principali città Argentine, chiamadoli tutti Estense Ristobar.
Non si era sposato e dopo la morte dei suoi genitori dedicò tutto il suo tempo agli affari, creando una catena di locali nel sud e nord America.
Non era mai tornato in Italia e mentre il treno rallentava la sua corsa per entrare in stazione, pensava che avrebbe dovuto farlo prima, non a settantaquattro anni, quando le emozioni si sopportano con più fatica.
Come avrebbe trovato la città dove aveva vissuto la sua fanciullezza? Quali ricordi gli avrebbe suscitato dopo tanti anni?
Scese dal treno titubante e guardandosi intorno con aria smarrita, si sentì offrire aiuto da un ferroviere in servizio ai binari. Ringraziando, si meravigliava del suo momentaneo stato di disagio, lui che aveva girato l’America, frequentato aeroporti e stazioni di grandi metropoli.
Percorse il sottopasso che portava all’atrio della stazione, trovandolo abbastanza spoglio, come erano quelli di tutte le stazioni di provincia. Nel salone un tabellone elettronico, un’edicola, un bar e le vecchie porte che già allora si faticava ad aprirle.
Era una bella mattina di primavera, dove il colore del cielo e il profumo dell’aria si facevano più intensi e subito li mise a confronto con i ricordi delle giornate autunnali, quando la nebbia avvolgeva la città per giorni e giorni, conferendole comunque un fascino particolare.
Nel piazzale della stazione, guardò subito sulla sinistra e sorridendo vide il grande parcheggio pieno di biciclette, molte vecchie e arrugginite, tutte protette da robuste catene, per evitare furti a ripetizione. Non si meravigliò molto, perché anche quando era ragazzino, c’erano molte bici lasciate dai viaggiatori giornalieri che raggiungevano la stazione con quello che già allora era uno dei simboli della città: la bicicletta.
Era ancora molto vivo nella mente , quello spazio antistante la stazione, pieno di biciclette, dove fermava anche la sua, quando accompagnato dalla mamma, andava a vedere arrivare e partire i treni, affascinato anche dalla frenesia dei viaggiatori che correvano ai binari, per salire in tempo nel vagone. Era molto bello vedere la scena di arrivo di persone, accolte da qualche famigliare, con abbracci e sorrisi. Ad aspettarlo oggi non c’era nessuno e nessuno doveva esserci. Si consolava pensando che era accolto da quella che era stata la sua città, vissuta negli anni più belli di fanciullo.
La prima novità che balzò agli occhi, furono due torri di fabbricato, alte almeno venti piani, che volevano assomigliare a grattacieli, sinceramente brutte e malamente inserite nel contesto cittadino, che lui ricordava fatto di case basse dai tetti rossi e di bellissimi giardini al loro interno.
Per andare all’albergo decise di non servirsi di taxi o autobus, pensando che una passeggiata gli avrebbe permesso di guardare come il tempo e il progresso avessero cambiato o mantenuto la struttura della sua città.
Viale Cavour lo vedeva uguale, con un doppio filare di alberi che ne ingentilivano l’aspetto. Solo il traffico di vetture e biciclette nelle corsie dedicate gli sembrava un po’ caotico. Un paio di villette stile liberty, erano rimaste come ricordava, mentre sulla destra verso il centro, all’angolo con corso Isonzo, non vide quel palazzo grigio, con una particolare facciata, anche lei “liberty” che chiamavano Panfilio. Di quel palazzo ricordò di esserci andato con la mamma ad assistere a uno spettacolo musicale che si teneva nel cortile antistante. A quel pensiero cominciò a crescere l’emozione del ricordo.
Camminando, lo sguardo si fece più curioso. A sinistra il mussoliniano palazzo dell’Aeronautica, a destra quello che tutti chiamavano la Casa del Fascio, dove da un balcone si era affacciato il Duce in visita alla città festante. Più avanti il marmoreo Palazzo delle Poste, dove saliti i gradini, l’atrio aveva un pavimento fatto con piccoli pietrini azzurri, sul quale con gli amici si facevano delle piacevoli scivolate. Ci si divertiva con poche cose.
Dall’altro lato della strada, ricordava i ruderi della Chiesa della Rosa, anticamente chiamata della Roggia, per un ruscello che passava nei pressi. Bombardata durante l’ultimo conflitto, ne era rimasto solo parte del chiostro. Ora lo ammirò ristrutturato da una Compagnia di Assicurazioni, che a fianco ne aveva costruito un grande palazzo, dal gradevole aspetto.
Fermo al semaforo, fece un tuffo nel passato, per l’immagine che gli giungeva agli occhi. Sembrava non fossero passati sessanta anni. I giardini, con sullo sfondo l’imponente figura del Castello Estense.
I giardini, in estate, erano il luogo di ritrovo coi compagni di gioco: nascondino, bandiera, palla prigioniera, mentre le mamme sedute nelle panchine, si raccontavano storie o criticavano benevolmente chi passeggiava nei vialetti.
Era rimasto tutto come nel fermo immagine di un film: la piccola fontanella, che dava ristoro dopo le corse intorno alle aiuole, la baracchina con i gelati, le bibite e i sacchettini di brustoline. Un po’ rinnovato l’arredamento e le proposte di gelati e bibite per l’estate. Anche il monumento a Garibaldi, con un militare armato di sciabola, era rimasto intatto nel tempo. Nei ragazzini che correvano intorno alle aiuole, quel monumento, suscitava ammirazione e attivava la loro fantasia, in epiche finte battaglie con spade di legno e assalti all’arma bianca. Allora bastava poco per divertirsi, forse la sola fantasia.
Rimase alcuni minuti fermo ad ammirare il “suo” Castello. Le quattro torri, il fossato che lo circondava, unico esempio in Italia e forse nel mondo. Del fossato ricordava di un inverno del 1952 particolarmente freddo che ne aveva ghiacciato le acque con i colombi che ci passeggiavano sopra e alcune sedie della storica birreria Giori forse gettate da nottambuli con la mente alterata dai fumi dell’alcol.
Entrò in castello dal lato giardini attraverso il piccolo ponte levatoio che portava al cortile dove vide con piacere i due pozzi al centro con accanto delle piccole piramidi costruite con le palle di pietra che si pensava fossero armi da guerra dell’esercito Estense,.
Ai ragazzini raccontavano con sforzo di fantasia che le teste di Ugo e Parisina, sacrificati a causa del loro amore contrastato, fossero state buttate dopo la decapitazione nei pozzi del cortile. Questa storia affascinava tanto che, ogni volta che si entrava in Castello, si andava a guardare dentro al pozzo nell’immaginaria visione di quelle teste.
Uscito verso Piazza Castello, vide con ammirazione la Colubrina, copia dell’originale arma da guerra, imponente e ben costruita, lì posizionata dall’Amministrazione Comunale e meta ora dei turisti che si facevano fotografare vicino o anche a cavalcioni dello storico cannone.
I ciottoli di porfido lasciavano intatto il fascino del centro, che degradava dal castello verso la piazza con il monumento a Savonarola che era stato addobbato con una sciarpa biancazzurra della mitica Spal in occasione del ritorno della squadra in serie A. Ancora inalterati nel tempo il bar Giori e lo spazio riservato ai taxi, che ora erano tutti bianchi, mentre nei primi anni cinquanta si notavano per essere di due colori: verde e nero. Nella circonferenza della piazza all’epoca facevano il giro anche i filobus, autobus con le bretelle che si posizionavano in alto, su due linee parallele di fili con la corrente elettrica. Si ricordava dei momenti quando queste bretelle uscivano dalle guide, gli autisti si fermavano e non senza difficoltà sistemavano le bretelle inserendole nei cavi. Operazione non facile, con scintillio di faville provocate dal mancato esatto contatto tra la bretella e il cavo. Per i ragazzini si trattava di uno spettacolo divertente.
Pensava tra sé “è proprio bella la mia città”. Raggiunse a passo lento Piazza della Cattedrale racchiusa dal Palazzo Comunale e dalla meravigliosa facciata gotico-romanica della chiesa. Unica nota stonata il fabbricato che aveva sostituito il Palazzo della Ragione, bombardato e distrutto da un incendio, del quale era rimasta solo parte della facciata. Negli anni cinquanta era stata progettata e realizzata una costruzione decisamente brutta, ora sede di attività commerciali e uffici. Peccato, si poteva fare di meglio…
Per raggiungere via Voltapaletto (che strano nome) percorse la stretta strada a fianco della Cattedrale, via degli Adelardi, dove oltre all’antica Osteria del Brindisi detta anche del chiucculino (si racconta fosse meta di personaggi famosi) avevano aperto altri caratteristici locali, meta dei giovani ferraresi e non, per bere aperitivi e gustare ottimi stuzzichini. Questa via gli ricordava vagamente gli scorci della belle époque parigina.
Via Voltapaletto era stata la sua via, dove aveva abitato dalla nascita, fino alla partenza per l’America. Il battito del cuore era improvvisamente aumentato e con un po’ d’affanno raggiunse il civico ventisei. Alzò gli occhi all’ultimo piano della casa e con commozione guardò le tre finestre che avevano gli stessi infissi e lo stesso colore. Una finestra era della cucina, una seconda della camera da letto dei genitori e la terza della sua cameretta. Il gabinetto era fuori dal piccolo appartamento, in un ballatoio, e aveva una finestrella che dava su di un cortile interno. Il grande portone che dalla strada immetteva in un androne era stato sostituito da una piccola porta e di fianco una saracinesca che probabilmente chiudeva un garage.
Avrebbe voluto suonare un campanello per poter vedere com’era cambiato l’interno. Non lo fece perché gli piaceva ricordare il luogo come lo aveva vissuto da bambino.
Nelle sere d’estate, le donne di casa, la zia e la nonna che abitavano il primo piano, si sedevano con la mamma fuori, sul marciapide di fronte a casa, trascorrendo qualche momento in compagnia mentre i bambini correvano lungo la via, senza pericoli perché le vetture che circolavano erano veramente poche. Questi incontri serali li chiamavano “a filò”.
Con la mente che si riempiva di ricordi, proseguì il cammino verso l’angolo con via De Romei.
La mamma lo mandava a prendere il latte (anche il cantante Morandi suo coetaneo, forse si era ispirato a quelle richieste di mamma per la sua nota canzone) con una bottiglia che il lattaio riempiva, prendendo il latte da grandi contenitori. C’era anche un negozio di alimentari dove stava una ragazzina della sua età particolarmente carina che gli provocò il primo rossore di adolescente.
Arrivato all’angolo, niente latteria ma il negozio di alimentari era aperto. Entrò pensando di trovarlo completamente rinnovato, ma tutto era rimasto come nei primi anni cinquanta: stesso arredamento, ancora qualche prodotto con i marchi originali dell’epoca. Non c’era naturalmente la ragazzina, ma una anziana signora che dal bancone gli chiese cosa desiderasse. “Sapere se lei si chiama Angela” chiese quasi titubante. La signora cominciò a fissarlo con attenzione e uscendo dal bancone s’avvicinò e disse: “E io vorrei sapere se lei si chiama Mauro.” Dopo la risposta affermativa, si abbracciarono con dolcezza, poi si scambiarono alcuni ricordi e si raccontarono l’un l’altra del presente.
Riprese a passeggiare, arrivando in via Mazzini che ritrovò piena di negozi moderni. Diede un’occhiata alle strade del ghetto e alla sinagoga e fu attirato dalla vecchia insegna con scritto Pasticceria Bida. Il ricordo della domenica, quando il papà portava a casa le famose e buonissime paste di Bida, gli riempì il cuore. Decise di riempirsi anche lo stomaco entrando nel glorioso locale e mangiando quattro paste sotto lo sguardo incuriosito delle giovani commesse.
Riprese la strada per recarsi all’albergo che raggiunse percorrendo via Bersaglieri del Po, anche questa rinnovata con negozi eleganti e moderni. Giunto in corso Giovecca, entrò nell’albergo che aveva prenotato, che già quando era ragazzino dicevano fosse il più elegante della città: l’Hotel Europa.
Anche quel luogo aveva mantenuto l’aspetto di un tempo, proprio come lo ricordava. Guardò con ammirazione la hall illuminata da bellissimi lampadari e apprezzò la scritta della targa ancora esposta sulla facciata: il maestro Giuseppe Verdi ha dimorato in questo albergo…
Cominciò a pensare cosa avrebbe fatto il giorno dopo. Una visita al Castello, una passeggiata per il Corso Ercole D’Este, un giro per le sale del Palazzo dei Diamanti e una camminata sulle antiche mura della città.
Pensava anche che a giorni sarebbe dovuto tornare ai suoi affari in Sud America.
Gli incontri con i suoi collaboratori, le telefonate, le visite ai fornitori, la programmazione pubblicitaria, l’apertura di un nuovo Estense Ristobar.
Pensò che fosse giunto il momento di fermarsi. Prese il telefono e chiamò. Dall’altra parte del mondo svegliò il legale e amministratore delle sue società comunicandogli la decisione: vendere tutto al migliore offerente, mettere una parte degli utili nella Fondazione a favore dei figli degli immigrati e quello che rimaneva, e non sarebbe stato poco, l’avrebbe destinato in Italia su un conto corrente che poi gli avrebbe comunicato.
Adesso si sentiva veramente ricco. Ricco di quello che la sua città gli stava donando, ricco dei ricordi con i quali continuare a vivere.
All’avvocato che gli chiedeva perché non sarebbe più tornato, rispose leggendo da un quadro appeso nella stanza d’albergo le parole: “O deserta bellezza di Ferrara, ti loderò come si loda il volto di colei che sul nostro cuor s’inclina.”

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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