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Il giorno delle elezioni in casa mia è sempre stato vissuto nella sacralità di un rito laico. Un’aura di religiosità ammantava quel giorno, spesso con i miei genitori andavo pure io alla scuola Ercole Mosti sede del seggio, nella consapevolezza che i miei nonni e mia bisnonna anche avevano fatto quelle poche centinaia di metri per recarsi nella mia scuola a fare il loro dovere.

I cartelli elettorali e i simboli io li conoscevo tutti, forse già dalla quarta elementare sapevo esattamente chi fossero i segretari dei partiti di tutto l’arco costituzionale, Craxi, De Mita, Zanone, Spadolini, Pannella, Almirante, Capanna, Magri. E poi c’era il nostro segretario, la gigantesca figura che ci rappresentava, nel rigore della sua timidezza, con la forza della sua pacatezza, nell’indissolubile vigore della forza dei Comunisti Italiani, Enrico Berlinguer. Non è per nulla facile far capire a chi non c’era cosa significava per una famiglia di Comunisti avere l’orgoglio di recarsi alle urne, in una città Bulgara come Ferrara alla fine degli anni ’70 e nei primissimi ’80.

La macchina della sezione “Chiarioni” da qualche settimana girava per le strade della borgata a richiamare alle urne i compagni, ma non ce n’era bisogno. Era un po’ come il primo di maggio e il 25 aprile quando mi svegliavo con le lacrime agli occhi per la musica che veniva diffusa sempre dalla medesima 127 del partito, con Bandiera Rossa, Bella Ciao e Fischia il vento sparate a 120 dB(A).

Le elezioni erano generalmente in primavera, l’aria nuova pre estiva, l’avvicinarsi della fine della scuola, le giornate lunghe e un pallone preannunciavano il vento del cambiamento. La rivalsa, tramite le urne, della nostra solidarietà di classe, il martello per demolire i muri del privilegio, la falce per estirpare le frange della reazione che in quegli anni chiamati di piombo ammorbavano l’aria di una democrazia incompiuta e incompleta. Le sezioni oliavano i morsetti dei tubi Innocenti in preparazione delle mille feste de L’Unità che si sarebbero succedute nel corso della bella stagione. I volontari, i compagni, a servire agli stands, a montare palchi, a verniciare tensostrutture, a collegare i morsetti degli alto parlanti.

Un mondo di solidarietà e partecipazione, un mondo dove quasi un ferrarese su due era un comunista. Una parola che ora fa paura, è passata da motivo di orgoglio a sostantivo da sussurrare in piccole e omertose riunioni, dove pare ancora esistano dinosauri mai estinti.

Bandiera rossa, come canzone e come oggetto di per sé, non rappresenta più il mio popolo, è sbriciolata e sbrindellata in pulviscolo impalpabile, quasi come il talco.

Il giorno delle elezioni, si salutava il presidente di seggio, compagno pure lui, si prendeva la matita copiativa, si scostava la tenda dietro la quale c’era il banchetto e si marcava a forza, calcando due o tre volte il primo simbolo in alto a sinistra. Senza dubbi, senza titubanze, con la mano che tremava per l’emozione, con il cuore pieno dell’orgoglio che quel simbolo rappresentava. Gli altri non erano come noi, è un dato di fatto, non ditemi che non è vero. Gli altri partiti avevano dei sostenitori, noi eravamo Comunisti, tutti attivisti nel loro piccolo, tutti più informati degli altri, tutti più preparati degli altri e non dite che non era così. La povera gente aveva dei portavoce, aveva dei rappresentanti, che stavano in sezione in Via Foro Boario, nella segreteria di Via Porta Mare e a Roma. Lì ci stavano i migliori, i più preparati, l’avanguardia del quarto stato.

Mi bastava sentire due parole dette a Tribuna Politica per capire se chi parlava era dei nostri o meno, forse concentrandomi sarei riuscito a individuare un Comunista alla TV anche solo dall’abbigliamento, la cravatta un poco allentata, la camicia sbottonata sui polsi, piccole cose, ma grandi differenze.

Da bambino i dibattiti in TV, ma soprattutto la predetta Tribuna erano programmi che tutta la mia famiglia, io bambino compreso, ascoltava come fosse la messa domenicale del Papa. Mi ricordo i salti sul divano e la sequela di bestemmie di mio padre agli interventi degli avversari, contrapposti ai rafforzativi e agli assensi quando parlavamo noi.

Noi, capite? Un pronome personale estinto, evaporato nella mediocrità dell’oggi, nell’appiattimento di tutte le idee, nell’evaporazione delle ideologie, parola bellissima divenuta il latte di suocera del Diavolo.

Alle venti della domenica o alle tredici del lunedì chiudevano le urne e lì si rimaneva incollati al televisore fino a tarda notte. Io ricordo che non riuscivo a prendere sonno, molto oltre la mezzanotte mi alzavo e vedevo mio papà e fino a una certa ora anche mia mamma, incollati al televisore a tubo catodico, a guardare le percentuali, ad ascoltare i commenti, nell’attesa del giorno dopo dove su almeno cinque quotidiani si confrontavano i numeri.

L’Emilia Bulgara era sempre una garanzia, assieme a Toscana e Umbria, regioni in cui notoriamente si vinceva a mani basse e a pugno chiuso. Alla volta del mercoledì si rideva guardando i risultati delle frazioni e della provincia andando sempre a ricercare il dato di Filo d’Argenta, dove le percentuali del partito raggiungevano il plebiscito e dove, la leggenda narra, aveva la tessera del Pci pure il parroco.

E non saprei dire una data precisa in cui tutto questo è evaporato, dove un popolo ha smesso di essere tale. Dopo la morte di Enrico vincemmo le Europee, e con le lacrime agli occhi ci abbracciammo in casa, il trentatre e rotti per cento, sopra la Dc, un sogno pieno di tristezza e che ci lasciò col magone per giorni. Il giorno dopo lessi l’editoriale di Giorgio Bocca su La Repubblica e lo odiai, per anni non riuscii più a leggere nulla che provenisse dalla sua macchina da scrivere. Il motivo? Disse che la vittoria era gonfiata dal lutto avuto nel giugno dell’84. Era vero, ma io non ero pronto ad accettarlo.

Dicevo, quando ci estinguemmo? Dopo la Bolognina? Dopo la morte di mio padre? Dopo l’abbandono della falce e del martello ai piedi della quercia? Dopo la nascita del Partito Democratico? Non lo so, credo che l’analisi abbisogni di un esercito di sociologi bravi.

Io mi sono perso.

Sono talmente perso che il mio essere Comunista dalle elementari mi porta a lasciarmi andare nel mare della mancata rappresentanza, con la speranza assurda e impossibile che poco prima di affogare una mano mi acchiappi per la collottola e mi tragga in salvo su una barca piena di compagni. Nel mare scosso della desolazione e della reazione mi conduca molto oltre le colonne d’Ercole, verso la speranza dell’approdo ad un mondo migliore.

Dove noi esistiamo ancora.

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Cristiano Mazzoni

Cristiano Mazzoni è nato in una borgata di Ferrara, nell’autunno caldo del 1969. Ha scritto qualche libro ma non è scrittore, compone parole in colonna ma non è poeta, collabora con alcune testate ma non è giornalista. E’ impiegato metalmeccanico e tifoso della Spal.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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