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“Democrazia senza” propone un’articolata analisi dello sfaldamento istituzionale a partire dallo svuotamento di senso di alcuni principi cardine propri della forma democratica: lavoro, uguaglianza, fiducia, sovranità, politica. Il volume sarà presentato a Ferrara domani (mercoledì 4) alle 17,30 alla libreria Ibs. Agli autori, la sociologa Maura Franchi e l’economista Augusto Schianchi, entrambi docenti di Sociologia all’Università di Parma, abbiamo chiesto quali siano i mutamenti economici e sociali che hanno determinato la situazione attuale.

“I fattori in gioco sono diversi – sostiene Franchi -. Innanzitutto la globalizzazione: un processo irreversibile che ci pone di fronte a problemi nuovi che è illusorio pensare di risolvere con risposte interne ad un singolo Paese. Inoltre, profondi mutamenti sociali hanno trasformato la società e il sistema produttivo, così i sistemi di rappresentanza hanno perso lo storico radicamento in mondi omogenei e compatti al loro interno. Non da ultimo, possiamo citare le tecnologie che hanno cambiato le competenze e soprattutto erodono molte posizioni di lavoro: un processo destinato ad accentuarsi. Insieme ai mutamenti citati è entrata in crisi l’idea di sovranità, vale a dire l’autonomia decisionale di un singolo Stato; l’aumento delle disuguaglianze logora i legami di fiducia che sono alla base della coesione sociale. Nel libro cerchiamo di sottolineare che gli aspetti citati sono concatenati e hanno anche un effetto moltiplicatore l’uno sull’altro. Ad esempio, se non c’è un grado sufficiente di inclusione la società si sfalda, se viene meno l’attesa positiva di un lavoro dignitoso la fiducia evapora, se la politica non esprime una visione del futuro, si crea disaffezione e viene meno una delle condizioni della democrazia: la partecipazione al voto”.

Il concetto di democrazia letteralmente designa l’esercizio del potere da parte del popolo attraverso il meccanismo della rappresentanza. E’ corretto affermare che il distacco sempre più accentuato fra eletti ed elettori e il conseguente crollo di fiducia nei confronti di chi è preposto ad attuare coerenti soluzioni, sia in fondo l’elemento che più di ogni altro ha contribuito alla crisi della democrazia?
La democrazia liberale presuppone un insieme di principi più volte richiamati: divisione di poteri, pluralismo politico, libertà associativa e di espressione – specifica la sociologa -. La partecipazione dei cittadini alle decisioni si esprime in primo luogo attraverso il voto. La stessa partecipazione al voto presuppone però un certo grado di fiducia, quanto meno che la propria voce possa essere ascoltata. In una recentissima indagine Demos, solo il 6% degli intervistati sente di essere tutelato dallo Stato, il 3/4% si sente tutelato dai partiti. Senza fiducia come si può immaginare di dare corpo all’idea di democrazia? La crisi della fiducia ha molte ragioni che in parte rinviano alla crisi del sistema dei partiti e in parte all’erosione della classe media che vede ridursi e svanire le attese di miglioramento delle condizioni di vita che avevano segnato i primi decenni del dopoguerra.
Il calo della classe media produce una divaricazione tra gli estremi della scala sociale. Le diseguaglianze hanno effetti reali ed effetti simbolici, se sono eccessive si traducono in una percezione diffusa di ingiustizia. Un eccesso di disuguaglianza smentisce le promesse stesse della democrazia che dovrebbe coniugarsi con pari opportunità di partenza, almeno su aspetti fondamentali come istruzione, salute, lavoro. Un eccesso di disuguaglianza divide la società, impedisce la mobilità sociale, nega il ricambio nelle posizioni di comando in ogni settore.

Il fenomeno della globalizzazione conduce di fatto al superamento della tradizionale forma di Stato-nazione. Ci si deve pertanto rassegnare a modelli di governo oligarchico-tecnocratici o sussiste la possibilità per i cittadini di recuperare anche in questa dimensione una sfera di autentica partecipazione e di controllo?
Con la globalizzazione viene meno la sovranità dello Stato-nazione – commenta Schianchi -, almeno nel senso classico con cui la sovranità era stata esercitata. Gli Stati si trovano con una sovranità formale, inevitabilmente debole rispetto a problemi che sono sovranazionali. In un tale contesto, insieme alle difficoltà di governare uno scenario nuovo, emergono due illusioni: la prima è che sia possibile recuperare sovranità e, ad esempio, produrre una maggiore crescita sganciandosi da vincoli sovranazionali (le discussioni sull’uscita dall’euro riflettono questo equivoco). La seconda è che possano trovare forme di governo di tipo tecnocratico, che sia possibile saltare la politica spostando la decisione su organismi “esperti”. Questa scorciatoia è alimentata da ulteriori ragioni: dalla complessità dei problemi da affrontare alla necessità di soluzioni rapide sollecitate da un mutamento impetuoso e continuo. La qualità dei problemi che non sono in molti casi facilmente comprensibili per i non addetti ai lavori, spinge verso la delega delle decisioni ad organismi tecnici e burocratici. D’altra parte, i politici possono essere tentati di delegare le scelte ai tecnici per incompetenza, ma anche per non esporsi troppo in scelte impopolari che nuocerebbero alla loro rielezione. Non da ultimo, il crescente disinteresse della gente per la politica percepita come un’attività volta alla mera difesa di interessi di casta si traduce in un rassegnato disimpegno o, al contrario, in una protesta sterile. In sostanza, sia l’inadeguatezza della politica quanto la complessità crescente delle questioni in gioco in un contesto globalizzato, spingono verso la ricerca di sedi tecnico-burocratiche che sostituiscano le classiche sedi deputate alla mediazione e alla decisione.

Nel testo fra le vie di soluzione ipotizzate, indicate una redistribuzione della ricchezza che garantisca quantomeno livelli accettabili di sussistenza per tutti. La cosiddetta sharing economy, ossia l’emergente modello di economia partecipativa, a cui nel testo fate riferimento, può contribuire a generare un differente assetto propiziando positivi effetti? E, date le sue peculiari dinamiche, ritenete possa favorire il recupero di un significativo grado di coesione sociale?
La coesione sociale presuppone un orizzonte comune di obiettivi e di sentimenti; per questo oltre a ciò che si è già detto prima, conta la percezione da parte dei cittadini che vi sia una direzione di marcia dichiarata con onestà da chi ha compiti di governo dichiara l’economista-. La cosiddetta economia della condivisione ha poco a che fare con le difficoltà che la democrazia odierna si trova ad affrontare. La sharing economy comprende fenomeni molto eterogenei tra loro, in larga parte associati alla trasformazione dei modelli di produzione e di distribuzione prodotta dalle tecnologie digitali. Da Uber (la piattaforma di trasporti che opera in 300 città di 60 paesi) a Airbnb (che media alloggi e lavora in 190 paesi) a Gnammo (la piattaforma per la ristorazione domestica), sono solo alcuni esempi di un quadro molto articolato. Il fenomeno in parte esprime una ricerca di adattamento degli individui alle nuove condizioni economiche, la ricerca di risparmio di costi dell’intermediazione, forme di scambio che semplifichino la vita e che offrano possibilità di accesso a servizi e anche occasioni di socialità. E certo molte nuove tipologie di distribuzione consentite dalle tecnologie digitali hanno migliorato le opportunità di consumo e ridotto i costi per gli individui. La disintermediazione riduce i costi dei servizi (pensiamo ad Uber che negli Stati Uniti è diventato una pratica diffusa con una riduzione rilevante del costo del trasporto per le persone). Sono fenomeni a cui fare attenzione per le numerose implicazioni (anche ambivalenti) sul reddito individuale e complessivo di un paese; implicazioni che riguardano anche le tipologie lavorative e le regole che dovranno essere individuate.

Infine una questione che va un po’ al di là del perimetro proprio del vostro studio. Ormai si parla sempre più diffusamente di crescita e di sviluppo relazionando i termini ai ristretti orizzonti economici. Non credete invece che si dovrebbe recuperare il più profondo significato dell’espressione progresso, con ciò intendendo la ricerca orientata a desiderabili prospettive capaci di propiziare un’autentica realizzazione individuale e collettiva?
Il concetto di sviluppo è più ampio di quello espresso dal concetto di crescita – osserva ancora Schianchi -. Quest’ultimo termine ha una valenza prettamente economica, non a caso si misura con indicatori economici come il Pil. Il termine sviluppo rimanda ad un’idea più ampia di società e presuppone la scelta della direzione di marcia verso cui andare. Lo sviluppo di una società comprende fattori come la qualità dell’istruzione, il livello di benessere e di salute, la vivibilità delle città, la qualità della vita culturale, l’ambiente, il grado di civiltà espresso da un paese e il senso di responsabilità diffuso. Per inciso, se c’è sviluppo le persone avvertono il senso di una società in grado di progredire, in un senso molto ampio, a partire dal miglioramento della vita quotidiana.
Ma senza crescita non ci può essere neanche sviluppo, per mancanza di risorse che consentano ad esempio investimenti nell’istruzione, nel welfare, nell’innovazione ecc. Alla fine le risorse sono un problema ineludibile, anche se i soldi non bastano perché un paese possa svilupparsi. Occorre anche una cultura dello sviluppo, occorrono investimenti di lungo periodo che fissino le priorità da affrontare e con la consapevolezza delle conseguenze economiche e sociali implicite in una scelta e nell’altra. Ma poiché le risorse saranno sempre scarse rispetto ai bisogni, le scelte restano ineludibili.

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Sergio Gessi

Sergio Gessi (direttore responsabile), tentato dalla carriera in magistratura, ha optato per giornalismo e insegnamento (ora Etica della comunicazione a Unife): spara comunque giudizi, ma non sentenzia… A 7 anni già si industriava con la sua Olivetti, da allora non ha più smesso. Professionista dal ’93, ha scritto e diretto troppo: forse ha stancato, ma non è stanco! Ha fondato Ferraraitalia e Siti, quotidiano online dell’Associazione beni italiani patrimonio mondiale Unesco. Con incipiente senile nostalgia ricorda, fra gli altri, Ferrara & Ferrara, lo Spallino, Cambiare, l’Unità, il manifesto, Avvenimenti, la Nuova Venezia, la Cronaca di Verona, Portici, Econerre, Italia 7, Gambero Rosso, Luci della città e tutti i compagni di strada

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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