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Roma – Le righe che seguono prendono spunto da un fatto di strettissima attualità: la decisione del governo italiano di elevare, a partire da oggi 26 aprile, dal 50% a un minimo del 70% (fino al 100%) la percentuale di lezioni in presenza nella scuola media superiore. Ciò che ci interessa non è il fatto in se stesso, bensì ciò di cui esso è sintomo, ovvero il dilagare di uno squilibrio di sistema che sta rendendo la quotidianità scolastica delirante, e non in senso metaforico.
Questo quadro clinico si traduce in una sintomatologia vasta e ingravescente, ma nell’orizzonte limitato del sintomo in questione – l’aumento delle ore in presenza dal 26 aprile – mi sembra che la natura del morbo si mostri in modo abbastanza nitido.

Prima di entrare nello specifico, occorre soltanto premettere ancora che questo morbo coincide con l’annichilimento delle ragioni stesse per cui le scuole sono lì: ovvero in vista delle esigenze di crescita degli studenti. La patologia le fa completamente perdere di vista. Annulla identità e personalità del malato.
Questa piccola storia comincia quando il governo italiano – all’interno di un progetto di riaperture di determinati settori del Paese – decide di riportare i liceali in classe per il 100%  del loro orario.
Perché fa questo a sette settimane dalla fine delle lezioni? Ovviamente, per una scelta di comunicazione. Il governo riapre la scuola. Il governo fa finire l’anno scolastico nella regolarità.
Si può, infatti, escludere ogni ragione sostanziale, già che gli studenti erano già a scuola al 50%, e dunque il recupero di lezioni in presenza, su sette settimane, è talmente esiguo da non aggiungere nulla a ciò che questo anno scolastico è stato, molto nel male e un po’ anche nel bene. Nessun impatto positivo reale, dunque, sulla crescita degli studenti. I possibili impatti negativi, invece, non sembrano scarseggiare (ci limitiamo, ovviamente, al solo punto di vista del diritto all’istruzione, tralasciando quello del diritto alla salute).
La misura, infatti, potenzialmente può nuocere non poco al 20% degli studenti, tra l’altro quello già più danneggiato dalla situazione: si tratta degli studenti dell’ultimo anno, quelli che devono sostenere, tra la fine di giugno e gli inizi di luglio, l’Esame di Stato.

Perché siano già i più danneggiati è abbastanza ovvio, già che hanno dovuto affrontare il tratto più critico e importante del loro percorso di studi liceali nella precarietà delle condizioni date a partire dal marzo 2020. Ora, la misura in questione aumenta le possibilità che anche l’atto finale del loro percorso – la sessione di esami – si trasformi in un’odissea ancor più inutile e penosa.
È infatti esperienza quotidiana in ogni scuola, nella situazione attuale, che studenti di diverse classi – e anche le classi nella loro totalità – vengano poste in quarantena o simili. Il verificarsi di una situazione del genere in una classe d’esame – tanto più probabile quanto meno oggetto di una specifica prevenzione – comporterebbe un diffuso ricorso alle sessioni suppletive, nel corso dell’estate.
Questa eventualità sortirebbe effetti pesantissime. Per brevità d’esposizione, non mi dilungo su di essi, limitandomi a sottolineare due possibili conseguenze: alcuni studenti potrebbero esser tentati di sorvolare sull’eventuale positività, se “asintomatici” o paucisintomatici, per non trascinare la croce dell’esame fin sul picco dell’estate, con tutti i rischi del caso; un gran numero di presidenti di commissione (ricordo che sono “esterni” alla scuola) potrebbe essere spinto da queste incertezze a rinunciare all’incarico, con buone chances di mandare in tilt tutto il congegno d’esame.

Fin qui, tuttavia, siamo nell’ambito di scelte – come si vede – opinabili, ma in qualche modo appropriate alla responsabilità politica, alla quale tocca anche – ahinoi, quanto spesso – di sbagliare. Il peggio, però, arriva dopo. Infatti, per una serie di legittime ragioni, compresa forse quella appena descritta, l’annuncio della riapertura al 100% ha scatenato sui territori una serie di opposizioni a diversi livelli.
A causa di queste opposizioni, il governo è stato, sostanzialmente, costretto a tornare sui propri passi. Tuttavia, il ritorno al punto di partenza (50% in presenza, 50% a distanza) sarebbe stato un tragico boomerang proprio sul prediletto piano della comunicazione.

A questo punto, si è cercato un qualche compromesso, tanto che all’inizio si è parlato di un piccato 60% in presenza, poi trasformato in un appena men buffo ‘minimo’ del 70%.
Non ci vogliono particolari doti medianiche per prevedere che nella stragrande maggioranza dei casi ci si atterrà a tale soglia minima.
Non ci vuole nemmeno un particolare talento matematico per calcolare che, su un orario di 30 ora settimanali per 7 settimane, il recupero del 20% di ore in presenza rispetto alla situazione precedente si traduce, nel migliore dei casi, in un totale di 42.

Vediamo ora quanto costano queste 42 ore, Quanto viene salvare la faccia.
Costa, innanzitutto, una gigantesca mobilitazione del sistema per generare un’inedita organizzazione del servizio – a poche settimane dalla fine dell’anno scolastico e nel momento in cui le scuole sono subissate dagli adempimenti di fine anno – e garantirne l’effettivo esercizio. Se, infatti, l’orario al 100% in presenza è nel DNA della scuola e quello al 50% faticosamente è stato messo a punto nel tempo, la proporzione 70/30 dovrà essere ottenuta ridisegnando da capo l’orario, sempre tenendo presenti le norme anti-covid, che per fortuna non sono certo state abrogate (distanze di sicurezza, ingressi e uscite scaglionate, ecc.).
Ora, se incastrare tutte queste variabili è stato arduo con le presenze al 50% (il che permetteva, ad esempio, di far venire compattamente le classi a scuola a giorni alterni), appare un’impresa al limite del rompicapo, o del delirio, con il 70%, a meno di non semplificarla con qualche trucco burocratico.
Prevengo un’obiezione formulandola io stesso: non sarebbe possibile risolvere questo problema facendo venire, invece del 70% delle classi, il 70% degli studenti di ogni classe, ovviamente a rotazione? No, non è generalmente possibile con le dotazioni di cui le scuole dispongono: il 30% a distanza sarebbe di fatto escluso dalla comunicazione. Sempre per brevità, non argomento oltre, ma non avrei alcuna difficoltà a farlo.

I problemi, purtroppo, non finiscono qui.
Per ottenere una qualità sufficiente delle interazioni didattiche a distanza, un insegnante ha bisogno di un discreto computer, di una buona connessione, di un ambiente tranquillo senza rumori di fondo. Sono – soprattutto gli ultimi due – elementi tuttora alquanto rari negli istituti scolastici.
A oltre un anno dall’inizio dell’emergenza, infatti, al di là di tutte le dichiarazioni d’intenti, nella maggior parte delle scuole le infrastrutture digitali non sono state significativamente migliorate e restano inadeguate alla situazione attuale.

Francamente, non c’è da stupirsene: è una contraddizione perfettamente in linea con tutto il resto. Accade anzi di peggio: ad esempio, non sono state affatto poste le condizioni per quella che sembra essere l’esigenza prioritaria nello scenario della pandemia (oltre che della qualità delle interazioni educative in generale): ovvero la riduzione del numero degli alunni per classe. Continueremo ad avere i famosi ‘pollai’. Non è forse un delirio?
Quando possono, gli insegnanti si connettono dunque da casa, con le loro risorse. Gli altri, li vedi aggirarsi nella scuola alla ricerca di angoli dove il wifi prenda, purché non troppo trafficati e caotici. Con la presenza al 70%, tutti, o pressoché tutti, i docenti saranno a scuola tutti i giorni e dovranno collegarsi da lì, rallentando o bloccando definitivamente la connessione e contendendosi spazi che non ci sono.
Il risultato sarà che – nel momento critico della chiusura dell’anno – le interazioni a distanza diminuiranno in quantità, qualità e puntualità, facendo ampiamente perdere quello che, eventualmente, si fosse guadagnato con il modestissimo incremento delle lezioni in presenza.

Se guardiamo, dunque, le cose dal punto di vista della sostanza, il prezzo del compromesso è l’accrescimento dell’indifferenza verso le esigenze di crescita degli studenti. Ovvero, l’estinguersi della ragione stessa per cui la scuola esiste.
Ecco il sintomo, analizzato nelle sue pieghe. Purtroppo, è solo uno dei tanti derivanti da un morbo che non dà tregua alla scuola da molti anni e che continuerà a tormentarla nei prossimi. La scuola è al delirio, e continuerà a esserlo. A meno di non precipitare nel coma.

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Giuseppe Nuccitelli

Giuseppe Nuccitelli insegna filosofia e scienze umane nella scuola media superiore pubblica.  Ha collaborato con Università, Enti di Ricerca, la RAI e altri soggetti. È autore di varie pubblicazioni nell’orizzonte della filosofia e della linguistica educativa. È giornalista pubblicista. In libreria, il suo esordio narrativo: “Parola di Pilsops. Le circostanze della passione”, Roma, Gangemi Editore, 2022.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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