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Debuttano oggi – tra i cartelloni malinconici del Black Friday e le cataste di panettoni industriali nei supermercati – i primi Mondiali di calcio giocati quando nell’emisfero nord del pianeta le giornate sono brevi e (speriamo) fredde.

L’aria, dunque, potrebbe pure farsi frizzante, ma non in quel modo specialissimo in cui lo diveniva quando, ogni quattro anni, tra le finestre aperte dell’estate rimbombavano le voci omologhe della giungla dei televisori, le urla strozzate dei quasi-gol, gli improvvisi silenzi delle reti avversarie.

Sulle prossime serate mondiali, invece, tutto tace e, personalmente, non ho ancora sentito, nemmeno prendendo il cappuccino al bar, una sola conversazione che le avesse come oggetto. I rigori invernali attutiscono quelli calcistici?

Certo, conta anche il fatto che l’Italia, per la seconda volta consecutiva, non si è qualificata per la competizione. Ma anche di questo si è smesso di parlare.

Ricordo ancora i primi Mondiali (allora Coppa Rimet) cui ho assistito consapevolmente. Erano quelli della famosa eliminazione dell’Italia ad opera della Corea del Nord, vissuta come un fallimento talmente abissale da divenire proverbiale. Il commissario tecnico Mondino Fabbri fu un buon allenatore, prima e dopo la Corea, ma il suo nome rimase a lungo patetico sinonimo di disfatta.

Qui, c’è un primo interrogativo perturbante: cosa differenzia Mondino Fabbri – e anche il buon Giampiero Ventura, il quale dopo l’eliminazione del 2018 contro la Svezia sostanzialmente non ha più lavorato – dal Mancio?
Perché a quest’ultimo – responsabile del peggiore dei tre fallimenti – non è stato richiesto a furor di popolo di uscire di scena come i suoi predecessori di sventure e, anzi, tanto la disfatta che la sua conferma nel ruolo di commissario tecnico sono state metabolizzate e digerite come se nulla fosse?

Il fatto è che Mancini – per geni, per storia, per relazioni, per reddito, per trucco e parrucco – appartiene con tutta evidenza a quel nuovo genere antropologico nato dall’evoluzione della società dello spettacolo (nel senso di Guy Debord) e dal culto secolarizzato del successo.

Si tratta di una nuova forma di trascendenza infra-umana – quella delle nuove divinità del pantheon globale – alla quale l’uomo comune si è assuefatto nel corso degli ultimi decenni, percependola ormai come per lui intangibile e inarrivabile. Se mai, le si rivolge soltanto attraverso quella grancassa demotica dello spettacolo che sono i social, con l’effetto reale – qualunque cosa ne dica – di espandere l’alone divino.

Già questo produce sconforto. Perché fa del tifoso uno spettatore, un suddito dell’oligarchia dello spettacolo. Della sua passione, il principio energetico della subordinazione, ovvero qualcosa che suscita afflizione.

Anche per questo, parafrasando il titolo di un famoso saggio di Benasayag e Schmit di qualche anno fa, possiamo dire di essere ormai nell’epoca dei Mondiali tristi.

Anche per questo, ma non solo per questo. Torniamo, infatti, a quel che ci attende nel prossimo mese, alle “notti algide”, inseguendo un goal sotto il cielo di un inverno patriota.

Occorre premettere che il mondiale qatariota è, innanzitutto, una carneficina:
secondo The Guardian, i lavori di predisposizione delle diverse strutture necessarie sono costati la vita ad almeno 6500 lavoratori, forse più propriamente definibili schiavi (leggi qui).

Lavoro schiavistico in Qatar

Qui, però, non si tratta di tristezza, bensì di orrore. Un orrore che non di rado, sotto varie forme e con diverse gradazioni, si è coniugato ai Mondiali di calcio, senza mai riuscire a suscitare emozioni in grado di prevalere su quelle calcistiche (leggi qui).

Anche nelle occasioni più controverse, come Argentina 1978, i Mondiali hanno infatti sempre alimentato quell’atmosfera speciale, quell’euforia così inconfondibilmente coloniale che sappiamo nutrire noi, cinici bambinoni europei e affini.

L’organizzazione dei Mondiali è fin qui stata, ça va sans dire, profondamente eurocentrica, a cominciare proprio dal fatto che sono sempre stati giocati quando nell’emisfero boreale è estate, in modo che ce li potessimo godere quando la ruota dei pensieri dell’anno gira per noi più lievemente.

Nelle edizioni disputate in passato nel nostro continente, gli orari delle partite non sono stati certo stabiliti pensando al, pur appassionatissimo, pubblico sudamericano. All’opposto, chi non ricorda l’edizione 1994, giocata in una torrida estate statunitense, con alcune partite disputate alle 12, ora locale, in tempo per il giusto sollazzo pomeridiano di là dall’oceano?

Anche le edizioni apparentemente per noi più scomode, come Mexico ’70, erano strutturate in modo tale da darci un brivido particolare, che si espandeva in quel caso nel godimento un po’ sedizioso delle riunioni notturne, in una sorta di cospirazione di massa che esplose infine, per noi italiani, nella conquista delle piazze.

Ciò che, quindi, viene superato con i Mondiali del Qatar non è assolutamente l’eurocentrismo, e tantomeno il cinismo. Ciò che viene superato è la connessione al godimento, nella sua forma diffusa e popolare.

In questo modo, eurocentrismo e cinismo si amplificano, asservendosi alla pianificazione razionale dell’evento in vista della sua massima utilità per quell’oligarchia semi-divina di cui parlavamo prima.

Il cinismo si fa quasi ascetico coniugandosi a un utilitarismo esclusivo ed elitario, il godimento diviene accessorio e marginale, cosa alla quale il popolo si adegua ancora una volta con la massima naturalezza predisponendosi alla fruizione anonima dello spettacolo che sta andando in scena.

E così, ci hanno fottuto pure i Mondiali.

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Giuseppe Nuccitelli

Giuseppe Nuccitelli insegna filosofia e scienze umane nella scuola media superiore pubblica.  Ha collaborato con Università, Enti di Ricerca, la RAI e altri soggetti. È autore di varie pubblicazioni nell’orizzonte della filosofia e della linguistica educativa. È giornalista pubblicista. In libreria, il suo esordio narrativo: “Parola di Pilsops. Le circostanze della passione”, Roma, Gangemi Editore, 2022.

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