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Una maledizione ispirata.
È in libreria il nuovo romanzo di Sergio Kraisky

A volte, per fortuna, s’incontrano dei libri che è possibile recensire senza essere costretti a contorsionismi o equilibrismi. È il caso de La maledizione di Raspùtin, di Sergio Kraisky (Voland, Roma 2022). Infatti, per comunicare al lettore tutto quello che c’è veramente da dire su questo romanzo basterebbe una sola parola: leggilo.

Questa aurea raccomandazione vale, quindi, anche per il lettore di Periscopio, il quale – se si fida – può anche interrompere qui lo scorrimento di queste righe e procurarsi senz’altro il volume.

Per chi, invece, volesse saperne di più, diremo che i destini di Raspùtin sfiorano soltanto le pagine del libro: il punto d’intersezione è costituito dalla venuta al mondo del personaggio centrale – Pavel Krotovskij – in prossimità della Rivoluzione d’Ottobre e in coincidenza giusto della messa a morte dello starec siberiano “in una notte d’inverno del 1916”.

Già che le vicende narrate partono appunto da questi dintorni e approdano al presente, che fa da prologo ed epilogo al tutto, va da sé che le vicende della famiglia Krotoskij (la quale ha in sé scorta di sangue ebraico) s’intrecciano a tutto il palinsesto del ‘secolo breve’ e postumi.

In questo tragitto, la famiglia s’incontra e s’incrocia con un’altra stirpe non grata al Novecento, quella degli Schmidt, sì che la leggendaria maledizione di Rasputin imprigiona i personaggi attraverso le concretissime trappole del destino che li attendono dal nord dell’Unione Sovietica al sud dell’Italia, dall’est dell’Afghanistan all’ovest del Sud-America.

Trappole che non solo sconvolgono le vite dei protagonisti, ma sono destinate a irretirli  in un limbo di ferite e di recriminazioni che non si risolve con la morte, in una condizione intermedia che richiama, esplicitamente, quella dei defunti di Bobok.
È, infatti, questo il racconto ‘minore’ di Dostoevskij al centro del labirinto di carte lasciato in eredità da Pavel ad Aleksandr, al quale non resta che tentare di “fare ordine tra i ricordi dei morti”, come gli consiglia la moglie australiana Amber, perché non vi è altro modo “per mettere a tacere i fantasmi”.

Ma Aleksandr-Kraisky non è lo scrittore di incerte fortune Ivan Ivanovič e i suoi morti non sono semplicemente imprigionati nei ruoli e nelle maschere della vita che li ha abbandonati: piuttosto, alla vita essi sono stati crocefissi con i chiodi smisurati della storia e quelli sottili delle loro scelte.

Dal primo punto di vista, le fortune dei Krotovskij e degli Schmidt tramontano al sorgere del ‘900: essi vengono – come i Tunda e i Trotta di Joseph Roth – investiti rovinosamente dallo tsunami della contemporaneità: “scompariva tutto un mondo, le crepe di quel terremoto attraversavano la Russia in lungo e in largo, laceravano le famiglie e si insinuavano dentro l’anima delle persone”.

Appare però degna di nota la differenza essenziale (chissà se legata in qualche modo ai pochi decenni che intercorrono tra le catastrofi degli uni e quelle degli altri) nel tratto maschile dei personaggi di Kraisky rispetto a quelli di Roth. Per questi ultimi, infatti, la sottrazione del loro mondo costituisce anche il personale e completo sradicamento dall’esistenza, ciò che li rende infine – come nello scintillante explicit di  Fuga senza fine – essenzialmente “superflui”.

I maschi Krotovskij, al contrario, non sono di quelli che si siedono tranquilli nel cuore di Parigi, accettando il cartellino rosso della Storia. Al contrario, mettono in campo un vitalismo narcisista che si orienta nei tempi cercando di coglierne le opportunità, come nel caso di Pavel che sfrutta ogni chance di diversione, di eclissi e di fatuità che la sovversione delle antiche regole – il demone dell’anomia, direbbe Durkheim – pone a sua disposizione.

Spetta allora alle donne sostenere dalle radici piante così ondivaghe, sì che stavolta sono loro a venir sradicate e fagocitate nel vuoto feroce di questi passatempi maschili. E quando Sigrid (Schmidt) tenta di sottrarsene, allontanandosi da Pavel e tentando di recuperarsi nell’Afghanistan della propria infanzia, in realtà va solo incontro a un’ulteriore e atroce declinazione – transculturale, verrebbe voglia di dire – di questa ferocia distratta, quasi burocratica.

La penna di Kraisky sostiene autorevolmente questo doppia declinazione della vicenda al maschile e al femminile, inerpicandosi, dal lato tragico,  verso un’asciuttezza di linguaggio e una linearità narrativa che fa correre ancora una volta il pensiero a Roth.

Sull’altro versante, un’analoga sobrietà strutturale si colora però degli effetti di uno sguardo impietoso e ironico che porta a provare verso Pavel e soci il sentimento equivoco di una simpatia nauseata.

È un esperimento di scrittura davvero ben riuscito, che progressivamente sospinge il lettore ad abbandonarsi a quella complessità della vita che non si decompone nella morte, ma che anzi sopravvive alle cellule e permette a Pavel di rompere finalmente il silenzio con Aleksandr proprio da quella condizione intermedia, per avvertirlo che “il paradiso è qui, sottoterra. L’inferno, come si sa, è in terra, mentre in cielo, figlio mio, in cielo non c’è assolutamente nulla”.

Sono queste le ultime parole, ma forse anche le prime, che egli può dire al suo Saša. La maledizione di Raspùtin è dunque rotta, la pagina ha fatto infine ordine tra i ricordi dei morti e pacificato i fantasmi, ha permesso loro di trovare la via del silenzio autentico, così diverso dal mutismo terreno.

Eppure, scivolando verso la fine del testo, si ha come l’impressione di sentire Pavel – il quale aveva per professione una certa dimestichezza con la letteratura – bisbigliare ancora una parola, stavolta libera e rivolta a noi tutti: ”Leggetelo”.

Il volume:
Sergio Kraisky, La maledizione di Raspùtin, Roma, Voland, 2022, € 17,00

Sergio Kraisky, romano, oltre che sociologo e romanziere, è anche un autore di Periscopio. Leggi i suoi racconti e i suoi articoli [Qui] 

In copertina: Joseph Roth (primo a sinistra) con alcuni amici artisti e intellettuali olandesi in un caffè di Amsterdam (www.kuenste-im-exil.de).

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Giuseppe Nuccitelli

Giuseppe Nuccitelli insegna filosofia e scienze umane nella scuola media superiore pubblica.  Ha collaborato con Università, Enti di Ricerca, la RAI e altri soggetti. È autore di varie pubblicazioni nell’orizzonte della filosofia e della linguistica educativa. È giornalista pubblicista. In libreria, il suo esordio narrativo: “Parola di Pilsops. Le circostanze della passione”, Roma, Gangemi Editore, 2022.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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