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Si avvicinano le elezioni e, come ginestre dopo il lungo inverno,  improvvisamente rifioriscono le categorie di “destra” e di “sinistra”.
Immancabilmente, qualcuno chiosa all’istante che la distinzione non avrebbe più senso, che si tratterebbe di categorie politiche obsolete, inadeguate alla pòlis globale contemporanea.

È davvero così?

In fondo, non sarebbe un dramma. Il mondo ha vissuto benissimo senza la destra e la sinistra fino alla fine del Settecento, ovvero fino a tempi molto recenti se osservati nella prospettiva della Storia.

Nel corso dei suoi circa 250 anni di vita, l’opposizione di ‘destra’ e ‘sinistra’ si è articolata intorno a diversi nodi concettuali: conservazione e progresso, individualismo e collettivismo, relativismo culturale e antirelativismo, e così via. Tra tutte queste opposizioni, ce n’è probabilmente una che è alla base di tutte le altre, o che fa loro da cornice: si tratta degli atteggiamenti e delle condotte verso le diseguaglianze.

Il concetto di Égalité, incastonato al centro del motto nazionale della Repubblica Francese (fino a essere incluso nell’articolo 2 della Costituzione del 1958), appare infatti connotato da uno spessore e da una profondità peculiari rispetto a tutti gli altri implicati nell’opposizione di destra e sinistra.

La riflessione sul senso e sul valore della diseguaglianza, infatti, non si limita a delle analisi di natura politica, o economica, o antropologica, ma si sviluppa come tale sul piano dell’ontologia, ovvero dell’indagine sull’essere.

Lo si vede bene in Marx, per il quale ovviamente le diseguaglianze devono essere radicalmente abolite attraverso il superamento definitivo della divisione della società in classi.

Tutte le trasformazioni prodotte da tale superamento sarebbero conseguite, nella visione di Marx, da un rinnovamento profondo della natura dell’essere dell’uomo, liberato dall’alienazione indotta dal ciclo di produzione del capitalismo.

Un’altra litania – spesso intonata da chi di Marx ha una visione di quarta mano – tenta di liquidare la visione di una società senza diseguaglianze e senza classi connotandola come utopia. Si dimentica il piccolo particolare che società umane non stratificate in classi sociali sono sempre esistite (per molti millenni anche prima che  nascessero quelle stratificate) e, sebbene in proporzioni molto ridotte, esistono ancora. L’antropologia culturale ce ne dà una ricca e incontrovertibile documentazione.

Ciò che spesso sfugge a chi intende minimizzare il valore del tema delle diseguaglianze è che si tratta di un’istanza che affiora lungo tutto l’arco del pensiero occidentale, come espressione di una società che la diseguaglianza l’ha, sebbene con varie gradazioni, nelle proprie radici.

Il ricorrere del tema enuncia, quindi la costante tensione di un mondo particolare, quello occidentale, che riflette sulla propria natura, il proprio essere, il proprio bene.

Per alcuni aspetti (la correlazione tra virtù e ricchezza; la relazione tra proprietà privata, universale e particolare) già in Platone, pur volendo evitare qualsiasi forzatura del suo pensiero, la questione appare ben attuale.

Sempre più, poi, essa emerge come una vera e propria interrogazione di fondo sulla possibilità stessa del bene nello spazio e nel tempo dell’occidente, come in Tommaso Moro, Campanella, Montaigne.

In Rousseau  (quello vero, non la piattaforma), l’interrogativo si fa disperante: la natura umana è benigna, ma l’addestramento a una società fondata sulla diseguaglianza e sulla competizione la corrompe e la fa degenerare. La scienza e la tecnica, inoltre, lungi dall’essere l’espressione più oggettiva e neutrale della ragione umana, sono un potentissimo meccanismo di amplificazione delle diseguaglianze stesse.

L’opposizione di destra e sinistra si distribuisce, insomma, intorno a una sorta di faglia che  incrina le basi dell’Occidente e ne impegna costantemente lo strumento prediletto: il pensiero.

In realtà, dal punto di vista politico, la scissura dovrebbe essere ormai abbastanza ridotta, già che come abbiamo visto le più evolute democrazie occidentali contemporanee, come quella francese, nascono proprio dalla costituzionalizzazione del primato dell’uguaglianza.

Ciò vale anche per la Costituzione italiana, come sa chiunque ne tenga a mente, o nel cuore, l’Articolo 3.

Per mantenersi, dunque, nel solco della forma e della sostanza del dettato costituzionale, destra e sinistra dovrebbero se mai differenziarsi intorno alle strategie, all’intensità, alla radicalità dell’agire democratico teso, in quanto tale, alla riduzione delle diseguaglianze.
In realtà, invece, si distinguono sempre meno, perse in una lontananza siderale dallo spirito della Costituzione.

Così, se ancora vi sentite di destra o di sinistra, avvicinandovi al 25 settembre potrete cercare di orientarvi tra le coalizioni e le liste che chiederanno il vostro voto in base a questo semplice e antico spunto di pensiero: quali sono stati e quali sono i loro atteggiamenti e le loro condotte reali (al netto, ovviamente, delle chiacchiere) verso le diseguaglianze.

Rischierete, in questo modo, di trovarvi entrambi in imbarazzo, per ragioni speculari: chi si sente di destra per un eccesso di offerta; chi di sinistra per la scarsità.

Gli amici di destra possono, però, giovarsi di un consiglio meno generale: se siete veramente di quelli che ritengono che le diseguaglianze debbano essere sapientemente alimentate, fortificate, modernizzate e moltiplicate, rivolgetevi senza esitazione a chi ostende – come un tempo si faceva con il libretto di Mao – l’Agenda Draghi e derivati.

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Giuseppe Nuccitelli

Giuseppe Nuccitelli insegna filosofia e scienze umane nella scuola media superiore pubblica.  Ha collaborato con Università, Enti di Ricerca, la RAI e altri soggetti. È autore di varie pubblicazioni nell’orizzonte della filosofia e della linguistica educativa. È giornalista pubblicista. In libreria, il suo esordio narrativo: “Parola di Pilsops. Le circostanze della passione”, Roma, Gangemi Editore, 2022.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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