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10 Febbraio 2016

Il ballo della vita

Tempo di lettura: 9 minuti


danza disabilità

Un attimo ti può cambiare la vita. Risucchiati dalla superficiale frenesia di tutti i giorni, è facile dimenticarsi di quanto precaria sia la vita e di come possa essere difficile per chi, a causa di un incidente o di una malattia, si trovi costretto ad affrontare ostacoli enormi per godere di quella che per i più si può considerare la normalità. Forse la superfluità, se non addirittura l’arroganza, ci porta a estraniarci da un mondo di persone come noi che, a causa della loro disabilità, vivono quasi emarginate e per le quali al dramma dovuto all’handicap si aggiunge l’altrui indifferenza.

Indaco (Integrazione danza e comunicazione) è un’associazione sportiva che, tramite la danza, si propone di favorire il recupero motorio e sociale di persone affette da disabilità. Si tratta di un progetto molto nobile nato dalla sensibilità e dalla professionalità di Donata Rodi, che racconta la sua attività e il mondo della disabilità con cui lavora a stretto contatto.

Indaco
Il logo dell’associazione

Personalmente, come probabilmente i tanti che ne sono venuti a conoscenza, trovo la vostra iniziativa bella, affascinante e ‘curiosa’, nel senso che si tratta di qualcosa di estremamente originale. Come è nata l’idea di proporre la danza in carrozzina?
La danza in carrozzina esiste già da diversi anni, soprattutto in Nord Europa e Stati Uniti, in Italia si è diffusa un po’ più recentemente. Io e un altro membro dell’associazione, Mario Montalbano, avevamo scritto un progetto sull’uso della danza nella riabilitazione. Quando sono venuta a conoscenza della disciplina ‘wheelchair dance’ ho studiato per diventare istruttore in Inghilterra. Tornata in Italia ho fondato, insieme al mio collega e a un gruppo di persone che hanno creduto nel progetto, l’associazione Indaco. Crediamo nella possibilità di riabilitazione tramite la danza: i movimenti del ballo possano essere un mezzo per recuperare la motorietà degli arti e, più in generale, del corpo.

Vi sono altre realtà simili in Italia?
Sì, non tantissime, ma abbiamo anche dei campionati e dei campioni. In alcune città come Roma, Torino, Milano, Firenze ci sono scuole che si occupano di questo tipo di disciplina. Tuttavia la danza in carrozzina è ancora poco diffusa fra persone disabili ‘comuni’, ossia coloro che non vogliano fare gare o in generale viverla come un’esperienza atletica.

Che rapporto avete con altre associazioni che propongono danza ‘canonica’?
Per il momento nessuno. Io personalmente sono anche istruttore di danza per normodotati e per diversi anni ho insegnato in quel campo, allora come oggi ho trovato che non vi fossero particolari contatti fra le diverse scuole di ballo. A ogni modo la nostra realtà è aperta a tutte le persone, a prescindere dalla loro condizione psicofisica: chiunque può partecipare a In.Da.Co. e condividere il momento del ballo con persone affette da disabilità. Si abbatte così una grande barriera.

Voi siete affiliati al Cip (Comitato italiano paraolimpico, ndr). Recentemente il Presidente Sergio Mattarella, in un incontro con gli atleti azzurri al Quirinale, ha detto che lo sport e le attività paraolimpiche non eliminano le disabilità, ma le conciliano con le esigenze della vita. Riscontrate questo nella vostra attività?
Sì, la filosofia della nostra associazione è trasformare le cosiddette disabilità in abilità. Ogni persona che può avere disabilità temporanea o permanente in realtà ha ‘abilità residue’, che vengono stimolate e accresciute dalla necessità derivante dal fatto stesso di essere disabile. Quello è ciò che noi vogliamo valorizzare: puntiamo su quello che c’è, non mettiamo in evidenza quello che non c’è. Una citazione di cui non conosco l’autore afferma che “non è l’uomo al servizio dello sport, ma è lo sport al servizio dell’uomo”, vale lo stesso per la danza che può diventare un mezzo di espressione e comunicazione.

Quanto si dà e quanto si riceve dal punto di vista umano dal lavorare a stretto contatto con portatori di handicap?
Personalmente ho un contatto quotidiano sia per lavoro sia per volontariato, anche al di fuori dell’Associazione. Certamente si tratta di un lavoro che richiede una grande professionalità da un lato e una grande umanità dall’altro, tuttavia quello che ricevo è qualcosa di incommensurabile, penso che chiunque altro lavori in questo settore possa sostenerlo. Io stessa, fra l’altro, sono una persona disabile.

Trattandosi anche di una sua esperienza personale, vuole parlarci delle conseguenze che la disabilità ha portato nella sua vita in termini di pensieri e scelte?
La prima cosa che posso dire è che ho capito da quel momento come la vita possa cambiare in un attimo per chiunque, a prescindere dall’abilità della persona. In seguito, inoltre, ho imparato a conoscere un mondo che non conoscevo prima e col quale raramente si viene a contatto se non si ha avuto problemi tali da rendere l’incontro inevitabile, come nel mio caso. Questo ha ampliato molto la mia veduta delle cose. Ho imparato ad apprezzare ciò che normalmente è scontato, fino ai gesti più semplici, che a seguito di un incidente possono diventare tremendamente difficoltosi. Rapportarsi con questo mondo aiuta diventare persone più responsabili e consapevoli, qualsiasi sia la strada si intraprenda.

Indaco
Un momento di una lezione

Integrazione è la prima delle tre parole che compongono la sigla Indaco, il fatto di voler far raggiungere a persone disabili una maggiore integrazione sociale è sicuramente una grande sfida, che risultati avete raggiunto su questo piano?
Facciamo ancora un po’ fatica a ‘stanare’ le persone con disabilità. Un conto è lavorare con un centro come il Perez, dove afferiscono persone con disabilità. Lì, anche dal punto di vista dell’integrazione, abbiamo notato grandi miglioramenti. Il problema è che molte persone disabili hanno la tendenza a chiudersi in famiglia e non penserebbero mai di iscriversi a un corso di ballo. È molto difficile farsi conoscere da queste persone e far avvertir loro le potenzialità che potrebbe avere un progetto come questo. Integrazione, anche attraverso il ballo, è fare in modo che non ci siano più differenze fra chi è in carrozzina e chi è in piedi. Nella vita può capitare che la normalità sia essere in carrozzina, ma ciò non significa che non si possano coltivare le abilità potenziali che si hanno.

Per quanto riguarda la motorietà vedete dei miglioramenti?
Sin dalla prima esperienza con il Centro Perez abbiamo avuto dei buoni risultati anche dal punto di vista fisico. Abbiamo visto persone in carrozzina che, tramite l’attività del ballo, hanno iniziato a voler provare a superare quella che è sempre stata una forma di rassegnazione e abbattimento: in situazioni del genere si tende un po’ a lasciarsi andare, a rinunciare inconsciamente anche a quelle che sono le proprie capacità residue. Attività come la danza o lo sport possono, invece, essere stimolanti per riprendere il contatto con il proprio corpo, che col tempo viene quasi dimenticato. Questo lo abbiamo visto anche al S.Giorgio e negli altri luoghi dove abbiamo operato, perfino nelle situazioni più gravi, con risultati molto positivi. Tendere a un gesto sportivo è diverso rispetto a fare un semplice movimento di riabilitazione: per esempio se, invece che ripetere un esercizio riabilitativo per il braccio, lo stesso movimento ripetuto viene visto come mezzo per arrivare a un altro obiettivo, ossia il ballo, avendo come sottofondo la musica e vivendo la situazione come un’esperienza ricreativa e sportiva, si riesce ad appassionarsi e a tirar fuori una determinazione molto maggiore. Vale anche per altre discipline sportive, la danza però, dal mio punto di vista, ha il valore aggiunto di mettere insieme la musica e il sentimento.

Parliamo di barriere architettoniche. Quanto si è fatto nell’ultimo periodo nella nostra città e quanto si deve ancora fare?
Pur non essendo il mio campo, posso dire che a Ferrara c’è ancora molto da fare sotto questo aspetto. Qualche anno fa fu organizzata, allo scopo di mettere in luce questa necessità, una manifestazione in cui si invitavano i cittadini a fare un giro per la città in carrozzina compiendo azioni per loro normalissime, quali entrare in un supermercato o visitare un museo, allo scopo di dimostrare quanto potesse essere difficile la vita di tutti i giorni per coloro che soffrono di problemi di motorietà. La speranza è che in futuro le cose possano migliorare, anche perché le barriere architettoniche sono una delle principali cause dell’esclusione dalla vita sociale dei portatori di handicap.

Le nuove cure e tecnologie sembrano offrire una speranza a chi è affetto da grave disabilità. Ne avete trovato riscontro pratico?
Io personalmente non ho ancora incontrato persone che utilizzino degli ausili particolarmente tecnologici. Ho visto dei filmati interessanti, ma l’esperienza diretta al momento mi manca. Ho esperienza con persone che usano al massimo carrozzine particolarmente leggere o protesi leggermente più complicate, ma questa grande integrazione fra l’uomo e la macchina per il recupero dalla disabilità sembra essere ancora lontano.

Tornando al vostro progetto, com’è stata la prima esibizione per Indaco?
Per la prima esibizione eravamo in quattro ‘normodotati’ e ballavamo in carrozzina. Lo scopo era dare una dimostrazione pratica ai pazienti del Centro Perez di cosa fosse la danza in carrozzina. Ricordo che per l’occasione abbiamo preparato un valzer lento, una samba e una danza moderna. È stata un’esperienza molto emozionante e ricca di preoccupazioni: il problema principale in quella situazione fu che coloro che ci avrebbero visti ballare sulla sedia a rotelle poi ci avrebbero visti alzarci in piedi. Il nostro lavoro ci porta inevitabilmente a emulare la disabilità, ma il problema è che chi ne è afflitto veramente può vedere la cosa come una presa in giro. A ogni modo abbiamo riscontrato un buon interessamento da parte dei pazienti e da quel momento è partita una collaborazione che va avanti ancora oggi.

Come funziona la preparazione di uno spettacolo di danza in sedia a rotelle?
Le nostre dimostrazioni servono principalmente per far conoscere quest’opportunità alle persone che, in carrozzina da anni, stanno a casa e non sono inserite in un contesto dove In.Da.Co. si può presentare, quali i centri riabilitativi dove operiamo quotidianamente. Queste persone devono sapere che una simile opportunità esiste ed è presente sul territorio. Per adesso, a parte la prima di cui ho già parlato, abbiamo avuto diverse esibizioni dal vivo e sono venute tutte quante molto bene. Da quando collaboriamo con le realtà del Perez e del S. Giorgio, a esibirsi vi sono anche e soprattutto i pazienti che decidono di aggregarsi a noi. La preparazione degli spettacoli di per sé consiste nello svolgere la nostra attività abituale, tuttavia già solo il fatto di lavorare nell’ottica di una dimostrazione si rivela essere un grandissimo stimolo per i nostri ballerini. Bisogna precisare che ci occupiamo non solo di chi è in carrozzina: alcuni dei nostri sono affetti da altri problemi di motorietà, che li portano ad avere capacità ed esigenze differenti. Vi è quindi un grande studio riguardo i diversi movimenti possibili per alcune persone piuttosto che per altre volto non solo al raggiungimento di obiettivi da parte del singolo, ma anche a creare efficaci sinergie di gruppo per far vedere qualcosa che anche nel suo insieme possa risultare bello. Quando si va a fare qualcosa di dimostrativo, soprattutto nell’ambito della danza, è importante anche far passare un’idea di armonia, ciò non vale solo per chi non sia affetto da disabilità.

Che risposte avete dal pubblico?
Per quanto riguarda le persone prive di handicap, c’è poca cultura riguardo a quello che facciamo, quindi il nostro impegno è anche quello di far conoscere il nostro progetto e chi vi partecipa. Spesso, come ti dicevo, si rimane perplessi a vedere che mentre alcuni rimangono seduti, altri, ossia gli istruttori, si possano alzare. Comunque la gente in generale rimane stupita del fatto che con le sedie si possano fare delle coreografie in grado di essere belle ed emozionanti. Per quanto riguarda i disabili è bello notare da parte loro la percezione di poter arrivare a far qualcosa fino a quel momento insperato e magari una ripresa di fiducia in sé stessi e di voglia di vivere.

Che progetti avete per il futuro?
Tanti, forse troppi. Ora stiamo lavorando per un’esibizione in programma per il 19 febbraio presso il Centro Sociale Il Quadrifoglio. Oltre a Ferrara, stiamo cercando di iniziare alcune collaborazioni anche a Bologna, per esempio. In generale il nostro scopo principale è quello di diffondere sempre più la nostra attività lavorando a stretto contatto con chiunque si volesse aggregare. Ci piacerebbe anche che questo progetto portasse a un miglioramento dell’inclusione delle persone con disabilità, a una vita un po’ più ‘normale’, che le aiutasse a raggiungere i propri obiettivi. Allo stesso modo ci piacerebbe che in futuro partecipassero alle nostre iniziative tutti, non soltanto portatori di handicap. Chiunque deve poter venire a fare attività con noi, disabili e non; questo è quello che per noi significa Integrazione.

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Fulvio Gandini

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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