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Non esci dalla proiezione di un film di Ken Loach, inglese “eretico” di Nuneaton, portandoti dietro un qualche senso di consolazione, ma questo lo sanno tutti. Personalmente non utilizzerei nemmeno termini come resistenziale, didascalico, militante, per citare alcuni degli aggettivi spesso associati alla sua opera. Loach è un cineasta che mostra le cose dal punto di vista degli invisibili, e sotto questo profilo è imbattibile. Le ambientazioni, le inquadrature, i dialoghi (il sodalizio con il suo storico sceneggiatore Paul Laverty non sarà mai abbastanza lodato) ti fanno entrare letteralmente dentro la famiglia, l’individuo, la comunità che vive quella situazione, che attraversa quell’esistenza. Un antropologo o un sociologo ti descriverebbero dall’alto una situazione per come è, spiegandone le cause. Un tecnico di laboratorio te la mostrerebbe come se fosse un vetrino. Loach ti scaraventa all’interno della situazione, mettendoti a bordo dello stesso camioncino di Ricky (in Sorry we missed you), facendoti perdere nel labirinto informatico della previdenza e sanità inglese assieme a Daniel (in Io, Daniel Blake), facendoti attraversare (come Damien in Il vento che accarezza l’erba) la porta che divide la tua vita prima di uccidere un amico dalla vita dopo averlo ucciso, un punto di non ritorno che cancella l’ipotesi di qualunque compromesso, fino a diventare il nemico del tuo fratello di sangue e di lotte.

Per quanto lo stile di Charles Dickens fosse anche patetico, caratteristica meno presente in Loach, vedere i suoi film mi fa lo stesso effetto che mi fece leggere, da bambino, Oliver Twist: quello di com-patire la sofferenza degli ultimi, che non significa piangere per la loro sorte, ma sentirsi in qualche modo loro.
Loach pratica anche una coerenza estrema tra il suo cinema e i suoi comportamenti, infrangendo il luogo comune che vuole che un artista sia giudicato solo per la sua arte, anche se è un farabutto, o un furbastro. “Non possiamo dire una cosa sullo schermo e poi tradirla con le nostre azioni. Per questo motivo, seppure con grande tristezza, mi trovo costretto a rifiutare il premio.” Questo disse nel 2012, motivando il rifiuto a ricevere il premio dal Festival di Torino con lo sfruttamento cui venivano sottoposti alcuni lavoratori della catena di produzione interna all’ organizzazione del festival stesso – una di quelle cose che non potrete mai vedere fatte dal progressista Fedez rispetto ad Amazon.

Il razzismo ha una funzione nella nostra società. Fa in modo di impedirci di identificare il nostro vero nemico. La responsabilità del problema dei senza tetto, della povertà e dello sfruttamento non è delle persone più povere e sfruttate. Farli diventare il capro espiatorio, perché sono neri o marroni o perché vengono da una cultura diversa, lascia i veri sfruttatori liberi di agire. Una classe di lavoratori divisa dal razzismo è perfetta per gli imprenditori. Essi traggono beneficio dal lavoro a basso costo, mettendo i lavoratori gli uni contro gli altri. Qualunque sia la loro retorica, i fascisti che si servono del razzismo parlano nell’interesse del capitale“. Vi ricorda qualcosa? E inoltre: vi viene in mente qualche politico di professione che usi parole così chiare per descrivere la guerra tra poveri in corso a favore del capitale?

Ken Loach è stato appena espulso dal Labour Party, al quale è sempre stato iscritto (tranne durante la tragica parentesi blairiana), formalmente perché non si è dissociato dalle posizioni (definite ridicolmente “antisemite”) dei membri del partito fortemente critici verso la politica di occupazione militare messa in opera dallo Stato di Israele [Vedi qui] .

La vera ragione è fare pulizia della sinistra radicale che si riconosceva nella leadership di Jeremy Corbyn, che aveva portato il partito Laburista al massimo degli iscritti. Mi domando che senso può avere, per un leader laburista, la cacciata di uno degli artisti la cui carriera rappresenta uno dei più fulgidi esempi di realismo sociale, le cui scelte anche personali testimoniano di un’integrità difficile da reperire nell’arte contemporanea. “Questa è davvero una caccia alle streghe. Starmer e la sua cricca non guideranno mai un partito del popolo. Noi siamo tanti, loro pochi.”  L’ultima frase di Ken Loach suona come monito e incitamento al tempo stesso per tutte le lotte che vedono impegnati i lavoratori contro il grande capitale, una frase che contiene un concetto semplice, poderoso ma troppo spesso depotenziato dalla sfiducia che serpeggia tra le file degli ultimi: loro sono pochi, noi siamo tanti.

 

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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