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Scade a giugno 2015 la proroga per la nuova verifica sulle carceri. Entro quel termine lo Stato italiano dovrà adottare le soluzioni necessarie a ridurre il sovraffollamento. Risale ormai a due anni fa (8 gennaio 2013), la sentenza di condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, per i trattamenti inumani verificatesi negli istituti penitenziari del nostro Paese (violazione dell’art. 3 della Cedu, Convenzione europea dei diritti dell’uomo). Ma il sovraffollamento non è l’unico problema delle nostre carceri. La situazione è drammatica anche perché è esiguo il numero delle persone che hanno l’opportunità di lavorare, sia all’interno del carcere per lavori di manutenzione o in officine e laboratori specializzati, sia per lavori socialmente utili come spalare il fango dopo le alluvioni, coprire le scritte che deturpano i muri dei centri storici o ripulire strade e parchi. I detenuti che hanno la possibilità di lavorare piuttosto che non fare assolutamente niente per giorni, mesi, anni, in Italia sono pochissimi, l’abbiamo sentito a Report nella puntata trasmessa il 30 novembre scorso [vedi] e i dati ufficiali* confermano il quadro.

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Desi Bruno

Dell’importanza del diritto al lavoro per le persone detenute, abbiamo parlato con l’avvocato Desi Bruno, Garante delle persone private della libertà personale per la Regione Emilia-Romagna, organismo di vigilanza e monitoraggio presente ormai da vari anni in via sperimentale a livello comunale, provinciale e regionale e, dal febbraio 2014, operativo anche a livello nazionale.

Avvocato, oltre alla sua principale attività di vigilanza e monitoraggio, lei da anni si sta spendendo nel territorio su vari fronti, per diffondere e promuovere una nuova cultura della pena che fatica ad affermarsi, nonostante sia già tutto predisposto e livello di ordinamento legislativo.

Sì, gli strumenti legislativi ci sono, c’è un raccordo e una collaborazione fattiva con gli altri Garanti territoriali presenti in regione, in particolare con quelli dei comuni di Piacenza, Parma e Ferrara (nella nostra città il garante è Marcello Marighelli, ndr). Quello che manca è la conoscenza degli strumenti e la volontà di attivarli, e per questo è necessaria un’opera di diffusione e comunicazione capillare a livello territoriale, perché come spesso succede in questo Paese gli strumenti ci sono ma non vengono compiutamente utilizzati. Spesso gli enti locali o le stesse direzioni delle carceri non sfruttano le possibilità e le potenzialità create dalle leggi, tutti si lamentano ma permane un forte immobilismo.
E’ importante ricordare che i detenuti sono privati della libertà personale, ma non degli altri diritti, in primo luogo del diritto al lavoro che è il fulcro del trattamento penitenziario e che deve essere retribuito. Il nostro è un ordinamento avanzato e non prevede il lavoro obbligatorio; il detenuto deve poter lavorare, per contribuire a mantenere la famiglia, per le piccole necessità e per mettere da parte qualcosa per quando uscirà dal carcere. Poi va benissimo anche il discorso del volontariato e dei lavori socialmente utili, una cosa non esclude l’altra, ma il lavoro retribuito è un diritto imprescindibile e l’istituzione penitenziaria avrebbe l’obbligo per legge di garantirlo.

Con Ferrara si è instaurato un certo legame e l’avvocato Bruno ha partecipato a diverse iniziative, tra cui la rassegna “Libri galeotti”, curata da Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto costituzionale dell’Università di Ferrara, e recentemente la due giorni di confronto sul tema dei “Diritti alla Terra. Coltiviamo nuovi modelli d’azione” organizzato da Alce Nero e Amnesty International, che si è svolto alla Wunderkammer di via Darsena, durante l’ultima edizione del festival di Internazionale [vedi].

Come si inseriva il suo intervento nel contesto dell’incontro sui “Diritti alla terra” alla Wunderkammer?
Da vari anni collaboro con Lucio Cavazzoni di Alce Nero per creare opportunità di lavoro per i detenuti legate al settore alimentare. Con lui abbiamo cercato di avviare alcuni progetti all’interno del carcere di Bologna, allora ero ancora Garante per il Comune di Bologna, come la creazione di laboratori di panificazione nel reparto femminile, di serre e orti, un allevamento di api.

Perché è così importante il tema dell’alimentazione e della terra per l’occupazione e la riabilitazione dei detenuti?
La coltivazione della terra per le persone detenute è un fatto cruciale che tocca vari aspetti: i detenuti che lavorano e coltivano prodotti freschi trovano soddisfazione e realizzazione durante la pena, imparano un mestiere che potrà essere utile una volta usciti dal carcere e, aspetto non meno importante, possono stare nel verde, nella natura, toccare e respirare qualcosa che non sia cemento. Le carceri italiane sono luoghi molti alienanti perché costruite quasi tutte negli anni ’70, con colate di cemento e con criteri di massima sicurezza, per via del terrorismo. Ecco quindi da dove nasce il recente tentativo di recuperare degli spazi verdi per la coltivazione o anche solo per l’incontro con le famiglie.

Le esperienze di orti e serre realizzate in regione e in Italia in generale hanno dato esito positivo? E quanto sono diffuse?
Le esperienze di coltivazione della terra sono state tutte molto positive, ma sono ancora molto poche. In regione ci sono realtà poco competitive ma che funzionano perfettamente: nel carcere di Modena si produce un ottimo miele, a Reggio Emilia e a Bologna ci sono le serre e gli orti, a Ferrara la coltivazione di verdure per la grande distribuzione, progetto molto interessante che vede la collaborazione della Coop e dell’associazione Viale K.

Abbiamo seguito la puntata di Report di domenica 30 novembre in cui emerge il drammatico quadro delle carceri italiane: sovraffollamento, rarissimi i casi di opportunità lavorative per i detenuti (fuori e dentro il carcere), a fronte di altissime spese di mantenimento da parte dello Stato, si parla di 4.000 euro al mese a persona. Perché è così difficile far lavorare i detenuti?
Sì, la puntata di Report è stata molto eloquente, anche se un po’ parziale perché è mancata la presentazione delle diverse esperienze che funzionano e che potrebbero servire da modello. Effettivamente il lavoro manca, e questo è un dato inconfutabile. Ed è vero che i detenuti vorrebbero lavorare perché l’inattività distrugge il corpo e la mente.
Occorre però distinguere tra lavoro retribuito e lavori di pubblica utilità. I lavori di pubblica utilità sono stati inseriti nel nostro ordinamento già da tempo, e consentono agli enti locali di poter utilizzare i detenuti per fare una serie di lavori. Nella nostra regione ci sono già state diverse esperienze positive: a seguito del terremoto del 2012, una decina di detenuti del carcere di Bologna e Modena sono usciti per svolgere attività di volontariato; a Bologna altrettanti detenuti sono stati formati per la pulitura dei muri dai graffiti del centro storico; nel ravennate già da tempo si occupano della pulizia delle spiagge e dei fiumi. Quindi diciamo che, laddove c’è una maggiore sensibilità, le iniziative vengono assunte e sono esperienze estremamente positive perché aiutano la collettività, hanno una funzione riparatoria e fanno risparmiare le amministrazioni che, soprattutto negli ultimi anni, non hanno più risorse da investire per questo tipo di attività. Vanno di conseguenza incentivate.

Quindi il problema si riscontra soprattutto per il lavoro retribuito, è così?
Sì, per il lavoro retribuito il discorso si fa più complicato: ci sono regole e controlli molto stringenti e occorre garantire un certo livello di produttività all’impresa che decide di investire all’interno degli istituti penitenziari. Alle imprese che assumono detenuti o ex detenuti vengono riconosciuti sgravi fiscali (legge “Smuraglia”) al fine di incentivare appunto l’assunzione. Quanto al lavoro interno all’amministrazione penitenziaria invece, vorrei però sfatare la questione del “non ci sono risorse”, perché le carceri spendono moltissimo appaltando lavori di manutenzione del carcere a ditte esterne, mentre potrebbero assumere gli stessi detenuti risparmiando. Come spesso accade non è un problema di soldi ma di mentalità. La stessa cosa potrebbe essere fatta dalle amministrazioni, favorendo l’assunzione di un certo numero di detenuti nelle cooperative di tipo B che si occupano della manutenzione del verde pubblico o dei lavori stradali. A Rimini, per esempio, c’è un’esperienza molto interessante ed esportabile in qualsiasi altra città: si tratta dell’Associazione Papillon che si occupa di impiegare nella coltivazione degli orti comunali i detenuti in misura alternativa.

Bene, passiamo al lato pratico e diamo indicazioni concrete: se un Comune senza più risorse avesse bisogno di fare la pulizia degli argini o la manutenzione delle aeree verdi, e volesse utilizzare dei detenuti, come dovrebbe fare?
L’ente pubblico deve fare richiesta alla direzione del carcere dichiarando uno specifico fabbisogno. Per ottenere il permesso di utilizzare un certo numero di detenuti, l’ente deve stipulare una convenzione con la direzione del carcere coinvolgendo la magistratura di sorveglianza. Quest’ultima fa una selezione delle persone idonee, ce ne sono molte, e la cosa è fatta. E’ fattibile e utile. Si tratta solo di agire, altrimenti siamo sempre punto e a capo. Tra l’altro l’Anci ha da poco firmato un protocollo d’intesa [vedi] con il dipartimento per l’amministrazione penitenziaria per promuovere l’attività lavorativa in favore della popolazione detenuta, in collaborazione con strutture pubbliche e private, al fine di dare concreta attuazione all’articolo 27 della Costituzione recuperando all’attività sociale il detenuto, evitando che possa delinquere ancora e riducendo i rischi di recidiva. Addirittura, in questo protocollo si parla anche di istituire vere e proprie agenzie che segnalino l’ammanco di personale per lavori socialmente utili che non vuole fare nessuno, in modo da incanalare l’utilizzo di detenuti per situazioni di reale bisogno.

E per quanto riguarda il lavoro retribuito, come fare per incentivarne e promuoverne l’utilizzo?
Le direzioni degli istituti penitenziari dovrebbero poter utilizzare le risorse di cui dispongono in modo diverso e con autonomia gestionale, considerando il lavoro dei detenuti come una risorsa, almeno per la manutenzione ordinaria e i lavori di pulizia che spesso non vengono svolti come si dovrebbe per mancanza di personale. Le amministrazioni penitenziarie dovrebbero anche poter utilizzare le competenze specifiche di certi detenuti: ci sono tecnici elettricisti, imbianchini, idraulici che potrebbero venire molto utili per la manutenzione dell’edificio. Per andare incontro alle difficili condizioni economiche in cui versano gli istituti, si potrebbero rivedere i compensi e le tariffe sindacali per il lavoro dei detenuti, e anche trattenere una parte dello stipendio come risarcimento delle spese sostenute per il singolo detenuto o come risarcimento alle vittime. Ma per fare questo è necessario che i fondi destinati al lavoro per i detenuti non subiscano continue e preoccupanti riduzioni, che vanificano ogni migliore intenzione.
Poi occorre anche saper interagire con il privato, con le aziende che potrebbero utilizzare il lavoro dei detenuti.

Qualche esempio positivo, nell’ambito della nostra regione, di aziende che acquistano i manufatti prodotti dai detenuti?
Da segnalare i casi di eccellenza del carcere di Bologna: da qualche anno nel carcere della Dozza è attiva a pieno regime un’officina meccanica, fortemente voluta da un cartello di imprese che operano nel territorio (Ima-Marchesini e Gd), che sta dando lavoro a 10 detenuti, assunti con regolare contratto da dipendenti; sempre alla Dozza, c’è poi l’esperienza di 4 donne che lavorano nella sartoria della sezione femminile, dove realizzano borse e capi bellissimi che commercializzano in varie situazioni pubbliche, ultimamente si è raggiunto anche il canale Ikea.

(*) a fronte di 58.092 detenuti presenti negli istituti italiani, sono 11.735 lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria e 2.364 non dipendenti ovverossia lavoratori in proprio o alle dipendenze di imprese o cooperative. Alla stessa data, nella Regione Emilia Romagna, a fronte di 3127 presenze complessive nelle carceri, risultavano 833 i detenuti lavoranti, di cui 627 alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria (Fonte Dap, dati aggiornati al 30 giugno 2014).

Per saperne di più:

Relazione annuale 210- Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna [vedi]

Garante dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale della Regione Emilia-Romagna
BRUNO Desi
Ufficio: Viale Aldo Moro, 50
40127 BOLOGNA
Telefono : 051 5275999
Fax: 051 5275461
e-mail: garantedetenuti@regione.emilia-romagna.it
sito [vedi]

Garante dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale del Comune di Ferrara
MARIGHELLI Marcello
Ufficio: Via Fausto Beretta, 19
44121 Ferrara
Telefono e fax: 0532 419709
email: garantedetenuti@comune.fe.it

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Sara Cambioli

È tecnico d’editoria. Laureata in Storia contemporanea all’Università di Bologna, dal 2002 al 2010 ha lavorato presso i Servizi educativi del Comune di Ferrara come documentalista e supporto editoriale, ha ideato e implementato siti di varia natura, redige manuali tecnici.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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