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Basterebbe un’affermazione di Baudelaire per definire l’odio: “L’odio è un veleno prezioso più caro di quello dei Borgia; perché è fatto con il nostro sangue, la nostra salute, il nostro sonno e due terzi del nostro amore.” Perché l’odio è legato all’amore, separato da esso da un confine così labile da permettere a volte una sorta di scambio osmotico. Due sentimenti estremi, totalizzanti, dei quali l’uno può sfociare talvolta nell’altro con una deflagrazione altrettanto potente.

L’odio rappresenta il più elevato, definitivo impedimento allo sviluppo della compassione e della felicità, anche quando qualcuno si appella al ‘sano odio’ come tentativo di mediazione e disonesta giustificazione di questo sentimento di per sé nefasto. L’odio non patteggia attribuendosi aggettivi moderati perché, per definizione, è un sentimento eccessivo, morboso, catastrofico. Oggi, forse, non abbiamo il tempo di soffermarci sul valore delle relazioni umane, ma continuano a sopravvivere i sentimenti forti, intensi, struggenti, passionali che animano i gesti, i pensieri, le giornate. L’odio di oggi, sempre più spesso si mantiene in vita artificialmente sui social, alimentato e incrementato dal potere e dagli spazi che l’web garantisce, protetto dall’anonimato e dalla possibilità di esercitare la sua vigliacca funzione. Il popolo degli haters si nutre di risentimento estremo, calunnia, accusa, illazione, fakenews, attacchi gratuiti, nascosto sotto fantasiosi nickname avvelena le discussioni con discorsi e interferenze improntati all’odio violento, privo di fondamento, inquina iniziative, provoca ulteriore odio con il suo disprezzo. L’epidemia dell’odio sembra quasi rispondere a una necessità fisica, un istinto che trae soddisfazione e appagamento dall’attacco verbale, violento tanto quanto un’aggressione fisica, addentando la vittima di turno fino ad annientarla. Un odio travestito spesso da capacità dialettica, acutezza di argomentazioni e soprattutto dalla rivendicazione del diritto alla legittima libertà di espressione e manifestazione di pensiero.

In letteratura l’odio nasce spesso da profonde ferite che fomentano un atteggiamento di oscura incontrollabile avversione nei confronti di chi o cosa è responsabile della sofferenza. Questo sentimento viscerale devastante diventa epidemico perché l’odio non può che generare odio: diventa contagio, lievita, fermenta, si moltiplica come la peste bubbonica. Nel romanzo ‘Cecità’ del 1995 Jose Saramago lo descrive molto bene quando parla della diffusione generale della cecità che colpisce l’umanità, una condizione che rappresenta l’indifferenza che sfocia nell’odio tribale violento da parte di gruppi malvagi che esercitano prevaricazione e sopraffazione cruenta sui più deboli. “Secondo me non siamo diventati ciechi”, afferma la protagonista, unica indenne alla perdita della vista, “secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono”. La prima figura emblematica legata all’odio è Caino, personaggio biblico archetipo del fratricidio, diventato la quintessenza di tutti i mali oscuri.
Anche Dante, nel Canto VIII dell’Inferno ha riservato un posto particolare a coloro che in vita hanno coltivato e nutrito l’odio. Li troviamo immersi in una mefitica e densa palude, una bolgia chiassosa di disperati costretti a dilaniarsi fra loro. Tra loro c’è anche il fiorentino Filippo Argenti – così denominato perché soleva boriosamente ferrare il proprio cavallo con ferri d’argento – la cui famiglia pare avesse incamerato i beni di Alighieri, sottoposti a confisca. L’uomo, immerso nella brodaglia fangosa si morde e si lacera nella sua solitudine.
Pagine che trasudano odio sono quelle del romanzo ‘A sangue freddo’ (1966) di Truman Capote, l’atroce storia vera di due ragazzi che sterminano quattro membri della famiglia Clutter senza motivo evidente. Il primo romanzo-reportage nella storia della letteratura. Lo scrittore si trasferì a Holcomb, Kansas, la cittadina che era balzata agli onori di cronaca per quel fatto sanguinoso, e raccolse tracce e informazioni minuziose sull’accaduto: una famiglia di agricoltori benestanti che improvvisamente, senza precedenti e motivi, viene strappata dalla sua dorata e monotona realtà da due giovani in preda a un odio gratuito e devastante, Perry Edward Smith e Richard Eugene Hickock, che verranno arrestati proprio mentre Capote si trova a indagare sul luogo. ‘Passaggio in India’ (1924), di Edward Forster, racconta di un’India che deve fare i conti con la colonizzazione britannica. Siamo a di Chandrapore, dove gli indiani occupano la parte bassa della città e la Cittadella che domina è riservata agli Inglesi. Il giovane medico musulmano, dr. Aziz, si trova accusato ingiustamente di violenza nei confronti dell’inglese Miss Adela Quested, la quale sosteneva che il fatto fosse avvenuto in occasione di un’amichevole gita alle grotte di Marabar. Nel romanzo è costantemente presente il binomio Io-L’Altro in un’incessante contrapposizione e opposizione, una conflittualità palese che genera odio: Oriente/Occidente, Inghilterra/India, uomini/donne, cristiani/indù. La diversità sociale, culturale, politica e religiosa tra colonizzatori e colonizzati che vivono ciascuno nel proprio mondo chiuso, genera un clima di disprezzo che versa in un odio sordo, spesso sottaciuto ma molto vivo, ancora lontano dalla dottrina della non-violenza di Gandhi, che sarà successivamente il vero e autentico momento di riscatto per l’India e gli indiani.

Il grande scrittore russo Lev Tolsoj sosteneva che le uniche cose che legano gli uomini sono la lotta per l’esistenza e l’odio, quasi che fossero le uniche due grandi forze cosmiche capaci di tenere viva interiormente l’umanità. L’odio è la fucina della vendetta ma, come sosteneva tristemente e realisticamente Arthur Schnitzler, quando l’odio diventa vile, si mette in maschera, va in società e si fa chiamare giustizia.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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