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Prendere le decisioni in gruppo, un accordo da trovare

Se non lo hai già fatto, leggi prima Gruppo e comunità (1) e (2)

Arrivammo nella sala con qualche minuto di anticipo.

Avevamo dedicato la parte finale della riunione precedente al prendere insieme alcuni accordi.

Sembrava una banalità, ma alla domanda A che ora vorreste iniziare gli incontri rispetto all’orario di convocazione? Quanto siete disposti ad attendere eventuali ritardatari?

Il gruppo si divise in tre opzioni, che all’incirca suonavano così.

Prima opzione: Io inizierei puntuale come un’orologio svizzero: il tempo è prezioso e sempre pochissimo, per cui è una questione di rispetto arrivare in orario.

Seconda opzione: Il quarto d’ora accademico non si nega a nessuno, c’è traffico, non si può arrivare sempre di corsa, un minimo di tolleranza ci vuole. Stiamo un po’ rilassati, intanto chi c’è può fare due chiacchiere.

La terza frangia era tutta presa a cercare mediazioni: 5 minuti di tolleranza, 10 minuti di tolleranza, no dai facciamo 8 così è una via di mezzo tra 0 e 15 e non scontentiamo nessuno.

Come volete prendere le decisioni in questo gruppo?
Fu questa la domanda che Paola pose. I più la guardammo perplessi. Come si prendono le decisioni in un gruppo? A maggioranza, ovvio. Ci sono altri modi?

Effettivamente, bisogna riconoscere che prendere le decisioni a maggioranza, scontenta sempre qualcuno. Soprattutto se quel qualcuno finisce sovente in minoranza.
Se siamo già in difficoltà a prendere decisioni su questioni semplici, come l’orario di inizio di una riunione, quanto lo saremo di più su problemi complessi?

Allora come? All’unanimità? Pare estremamente difficile che un gruppo possa essere autenticamente unanime su tutte le questioni. Capita che l’unanimità la si raggiunga come tentativo di arrivare ad un compromesso, perdendo in trasparenza e sacrificando il proprio punto di vista per molteplici motivi. Se poi pensiamo che alla base della Vita c’è la biodiversità, risulta difficile pensare che la vita di un gruppo sano possa basarsi sulla omogeneità, sul pensarla  tutti allo stesso modo.

E allora come si fa?

Le questioni su cui si associano molti gruppi sono complesse o estremamente complesse. Tentare di far fronte ai grandi problemi planetari di oggi, ad esempio, è una questione complicatissima, che interpella l’analisi e la tenuta insieme di una moltitudine di variabili. Anche solo per questo motivo, il beneficio del dubbio dovrebbe sfiorare le coscienze e rendere chiunque prudente nel proprio porsi su un cammino di condivisione.
Il tema del COME SI PRENDONO LE DECISIONI risulta cruciale.

Non a caso, se si intervistano i gruppi, alla domanda Quali i problemi più grossi che hanno interessato la vostra vita associativa? La maggior parte nomina i problemi legati al prendere decisioni che spesso generano conflitti, divisioni, incomprensioni, malumori, zizzania nei corridoi, fino a sfociare non raramente con la fuori uscita di alcuni membri.

Bisognerebbe prendere atto che i sistemi decisionali che utilizziamo abitualmente ed in maniera inconsapevole, non sono adatti a gestire i problemi complessi.

Se per problemi semplici è possibile trovare relativamente rapide e semplici soluzioni, per i sistemi complessi è tutto molto complicato e spesso contro intuitivo.

Chi studia i sistemi complessi, sa che molta cura va dedicata al processo, al COME, prima che al COSA.

E invece la maggior parte dei gruppi si riunisce “sul cosa” e “il come” non lo vede come questione di cui occuparsi in maniera propedeutica.

I più non si pongono nemmeno il problema.

Pochi si stanno occupando seriamente di questo tema.

Tra questi, con tante e variegate esperienze incoraggianti, troviamo il movimento della Transizione, nato in Inghilterra nel 2006 nella città di Totnes dalle idee di Rob Hopkins ed ora diffuso in oltre 50 Paesi del mondo.

Questo approccio sistemico basato sul COME, comprende anche STRUMENTI E METODI che permettono di gestire processi decisionali complessi, come il metodo della SOCIOCRAZIA. Non stiamo parlando di un ricettario di tecniche che si possono imparare in quattro e quattr’otto, ma, come ogni cosa complessa, necessita di studio, esperienza, accompagnamento e tanta pazienza.

Alla base della sociocrazia vi sono alcuni assunti come Si procede in assenza di ragioni per non procedere. Si analizzano le proposte, si fanno emergere eventuali obiezioni. Le obiezioni sono lette come opportunità per comprendere rischi che il proprio personale osservatorio non ha valutato. Luci, in altre parole, su altri osservatori. Più obiezioni emergono, più si ha l’opportunità di valutare anticipatamente i rischi, che diventano stimoli per comprendere lo scenario entro cui ci si muove in maniera più ampia ed inclusiva. Non lo si fa per buonismo, ma perchè nella realtà delle cose, esiste una complessità di cui tenere conto se si vogliono efficacemente affrontare i problemi. Più il gruppo è eterogeneo, più è biodiverso, più dà la possibilità di cogliere molteplici sfaccettature.

Qualcosa del genere lo ricordano le Assemblee dei cittadini, che alcuni movimenti per il clima stanno proponendo: assemblee in cui a riunirsi sono cittadini sorteggiati in maniera stratificata, ovvero portatori di interesse differenti, provenienti da ambienti diversi, con formazioni diverse. Serve tempo per questi processi. Sono utili soprattutto per prendere grandi decisioni, non nell’ordinario.

Ma non basta mettere insieme biodiversità umana. Serve anche un approccio adatto e all’altezza per evitare di inciampare sempre nelle stesse cose che non funzionano.

Tornando al metodo sociocratico, è interessante l’impostazione di fondo basata sui custodi: funzioni presidiate e tra loro strettamente interconnesse, garanti di una concreta democraticità:
– un custode del tempo, capace, con garbo e decisione, di mantenere attenzione sui tempi, sulla sostenibilità dell’ordine del giorno, sul fatto che non emergano “ping pong” tra due o tre persone che finiscano per monopolizzare la discussione, privando gli altri dello spazio tempo necessario per ricevere cittadinanza;
– un custode della storia, che tiene traccia di quanto emerge in riunione, di chi fa che cosa e in che tempi, ovvero degli accordi presi e dei principali punti di discussione, assicurandosi anche di informare gli assenti, così che ognuno possa velocemente aggiornarsi su quanto accaduto in sua assenza (ottimi i diari di bordo su file condivisi e scritti in tempo reale);
– un custode del cuore, che presta particolare attenzione ed empatia al clima di gruppo, alle eventuali tensioni, al livello di energia o meno presente, che significa motivazione ad attivarsi e prima ancora a fare parte di quel processo;
– un custode del processo che, in maniera particolare, aiuta a tenere insieme i pezzi, coordinando e curando i collegamenti o “cerniere” tra funzioni, gruppi di lavoro, obiettivi ed azioni, ovvero la coerenza di TESTA-CUORE-MANI.

Soprattutto per chi ha nel cuore e nelle parole l’ALTERITA’, l’apertura al diverso, risulta urgente (e coerente) imparare a comunicare tra diversi punti di vista, producendo conoscenza condivisa, cooperazione, assumendo quanto emerge dal gruppo e procedendo via via con accordi che diventano la bussola che orienta verso una direzione comune. Parliamo spesso di comunità inclusive. Bene. Abbiamo continuamente ottime occasioni per sperimentarci in questa polifonia, con curiosità ed umiltà, ma prima ancora ci vuole il desiderio di farlo.

Sempre a proposito del COME, risulta interessante e proficuo, osservare la propria ed altrui comunicazione, inconsapevolmente improntata su una grammatica ed un linguaggio che poco favorisce l’accoglienza e l’inclusività. E anche su questo molto c’è da imparare, ad esempio dalla comunicazione non violenta.

Ma di questo tratteremo nella prossima puntata.

Per approfondire OLTRE QUESTA DEMOCRAZIA TEDxBologna a cura di Cristiano Bottone

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Anna Zonari

Le parole che preferisco sono relazione, ascolto, gruppo, comunità. Ma amo molto anche il silenzio, il canto degli uccelli, camminare in solitaria nelle foreste dell’appennino romagnolo.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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