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Sono 50 o 83?

Il susseguirsi di femminicidi delle ultime settimane interroga ciascuno di noi su cosa si sarebbe potuto fare per evitarli e quale intervento siamo collettivamente in grado di mettere in campo per impedire altre morti. I temi sono molteplici. Ne indico quattro.

Spulciando tra le notizie ho letto su autorevoli quotidiani che i femminicidi avvenuti nel 2021 sono per alcune testate 50, per altre 83.
Potrà sembrare una questione di poco conto; io credo invece che non sia così. Passi uno scarto di poche unità, ma un divario tanto grande si spiega solo con l’applicazione di criteri differenti, ovvero con diverse concezioni di quello che solo da pochi anni viene pensato come fenomeno sociale e non come susseguirsi di eventi tra loro scollegati.

Che sia giusto occuparsene con un’attenzione mirata non ho dubbi, e non so quale misura sia giusta, se 50, 83 o un’altra ancora. Ho il timore che la parola “femminicidio”, come è successo alla parola “bullismo” per stare a un tema che studio da tempo, finisca per essere usata dai media e da tutti noi come passepartout, e quando un termine vuol dire tutto, finisce per non significare più niente.

Mi capita di vedere affibbiare l’etichetta di femminicidio a qualsiasi omicidio di una donna e non mi pare appropriato: un tossicodipendente può uccidere, in una rapina, una donna o un uomo nello stesso modo se ha bisogno di denaro. Proprio per questo sarebbe opportuno comprendere bene che cos’è il femminicidio, riconoscerne i contorni e costruire su questo un consenso diffuso.

Troppe armi in casa

Non ho una statistica sottomano, ed è vero che tante donne sono state uccise altrimenti, ma mi pare ricorrano le armi da fuoco associate a mestieri che le prevedono, quali la guardia giurata, o carceraria, o l’appartenenza alle forze dell’ordine. Mi domando la ragione per cui chi svolge queste professioni si porta a casa l’arma di ordinanza, anziché riporla in un’armeria, sul luogo di lavoro, arrivato a fine giornata.

Dopotutto i chirurghi non tengono il bisturi in tasca. E sarà ozioso, ma io mi chiedo quale messaggio implicito riceva chi può trattare come propria la pistola che gli è affidata per motivi professionali. Come percepisca il proprio potere nelle relazioni anche una volta smessa la divisa. E quali controlli si facciano per accertare l’equilibrio personale di chi per mestiere è armato.

Le deformazioni professionali ci sono sempre: gli insegnanti tendono a dare i voti anche ai figli, gli infermieri a soccorrere il prossimo e via di seguito, ma alcuni atteggiamenti, trasposti dal lavoro al quotidiano, sono palesemente più rischiosi di altri.

Riconoscere la gravità della violenza nella coppia

Accantonati i femminicidi, ad altri tavoli straordinariamente importanti si discute a più voci su quanto debba pesare una denuncia per violenza, su quanto debba influire ad esempio sulle decisioni nel corso delle separazioni coniugali o dei procedimenti giudiziari per la tutela dei figli.

Due schieramenti opposti espongono i loro giusti argomenti. Da un lato, prendere decisioni ignorando la denuncia mette a rischio l’incolumità della vittima e dei bambini, e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Dall’altro, convalidarla prima di una sentenza di condanna apre al rischio delle false accuse, e anche su questo i reclami non mancano.
Una strada per agire con equilibrio e precauzione deve però esistere. Non ne conosco una migliore di analizzare volta per volta la situazione, con il massimo scrupolo e nell’ascolto delle parti, consci di oscillare tra due possibilità di errore.

Da tempo sono stati messi a punto metodi che aiutano agenti di polizia, operatori sociali e sanitari a raccogliere dalla vittima le informazioni in modo accorto, per riconoscere i casi in cui rischia di più.
Queste metodologie non sono una panacea ma un aiuto sì, e applicarle sarebbe doveroso. Potrebbe avvenire dopo una formazione ampia ma approfondita per tutti coloro che professionalmente incontrano le vittime, affinché le ascoltino con le giuste accortezze e forniscano poi ai magistrati gli elementi necessari per riconoscere i casi di maggiore gravità e proteggere coloro che ne hanno bisogno.
In altri paesi europei è già così, l’Italia continua a essere inspiegabilmente diversi passi indietro.

Alleviare l’oppressione di ruoli di genere troppo costrittivi

Continuiamo a crescere bambini, poi ragazzi, poi uomini, che si negano le lacrime, o l’ascolto delle emozioni, e legittimano la violenza come soluzione a un affronto.
Sull’altro fronte ci sono ancora bambine, poi ragazze, poi donne, votate all’accudimento, al senso di colpa, al sacrificio di sé.

Gli uni e le altre sono meno presenti che in passato ma ci sono ancora – non servono grandi numeri perché si dispieghi la violenza – e l’intreccio tra culture e stili educativi diversi rimescola le carte.
Prevedere un’educazione all’affettività e al rispetto ben fatta, nella scuola pubblica in modo che includa anche chi non la riceve in famiglia, sarebbe un’azione preventiva estremamente importante.

Ripenso agli uomini che ho conosciuto personalmente perché avevano ucciso la madre dei propri figli. Provo a immaginare i tantissimi che non ho incontrato ma di cui si leggono le dichiarazioni: “lei mi tradiva… lei aveva detto di non amarmi più… voleva lasciarmi e non potevo sopportarlo,”.

A tutti loro vorrei dire che il disonore di un uomo tradito è niente rispetto a quello di un assassino. Che il conforto di sfogarsi con un gesto efferato è misero confrontato alla pena inestinguibile che ne consegue per avere spento una vita, sacra in sé e per ciò che significa in chi l’ha amata. Che la soddisfazione di dominare un’altra creatura è superficiale e minima se pensiamo al piacere di conoscere e farsi conoscere dall’altro, con tutta la fatica di mettere e lasciarsi mettere in discussione. Che la catastrofe di un abbandono la conosciamo benissimo anche noi donne, ma in genere la sciogliamo nell’abbraccio di un’amica e non arrogandoci il diritto di spegnere la vita altrui.

Un mio spunto di riflessione laterale: [Vedi qui]

Questo articolo è apparso anche sulla www.azionenonviolenta.it

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Elena Buccoliero


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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