Eletti ed elettori, una pericolosa alternanza di diffidenza e populismo
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Dopo l’ultimo incontro del ciclo Passato Prossimo con Piero Ignazi [vedi-link all’articolo] ci eravamo lasciati con il punto fermo della crisi del modello del partito di massa novecentesco e alcune domande sul processo di personalizzazione dei partiti italiani. Proprio dall’indebolimento del modello novecentesco di partito e dal tema del leader e del suo rapporto con gli elettori è partita l’analisi dell’appuntamento conclusivo di Passato Prossimo: “Populismo. Crisi della rappresentanza politica e partiti carismatici”, ospiti d’onore lo storico Giovanni Orsina, dell’Università Luiss di Roma, e il suo volume “Il berlusconismo nella storia d’Italia” (Marsilio, 2013).
Orsina sembra pensarla come Ignazi, la nostra peculiarità non sta nella crisi dei partiti del ‘900 o in un rapporto fra leader ed elettorato filtrato ormai quasi totalmente dai media, “l’unicum italiano è che in nessun altro Paese occidentale si ha una crisi politica, o meglio di un regime democratico, negli anni Novanta”: in altre parole Tangentopoli. È Tangentopoli, secondo Orsina, a far balzare improvvisamente il sistema italiano da una forma ancora molto basata sull’organizzazione e le strutture dei partiti a una basata sul “leader mediatico”.
Ma se Mani Pulite è la causa immediata della nascita politica di Berlusconi e del berlusconismo, Orsina è convinto che le radici di questa retorica antipolitica siano più profonde e necessitino di un’analisi di lungo periodo dei rapporti fra élite e popolo in Italia. La tesi di fondo del volume, infatti, è che il nostro Paese si caratterizzi per una profonda sfiducia reciproca fra élite politiche e istituzioni pubbliche da una parte, e ‘popolo’ dall’altra. La responsabilità di tale sfiducia andrebbe attribuita a élite sempre in cerca di soluzioni “ortopedico-pedagogiche”, come le definisce lo storico romano nel volume, per riformare le masse e costringerle ad accettare la modernità: un tentativo che accomunerebbe le classi dirigenti risorgimentali, il fascismo e la ‘repubblica dei partiti’ instaurata nel 1946. Nel 1994, l’imprenditore di Arcore avrebbe perciò avuto successo non solo per le sue risorse finanziarie o per il suo talento comunicativo, ma perché ha detto alla società italiana ciò che questa voleva sentirsi dire: che il problema italiano non era il popolo ma lo Stato e perciò era possibile e necessaria una nuova classe dirigente, formata di persone competenti ed estranee ai vecchi partiti. Il berlusconismo ha insomma ribaltato il paradigma di D’Azeglio “fatta l’Italia occorre fare gli italiani”, valido dall’Unità fino a quel momento, asserendo che la politica “non deve pretendere di essere migliore del Paese e di cambiarlo”. E forse questo è ciò che lo accomuna agli altri populismi italiani descritti nel volume “Il partito di Grillo” curato da Piergiorgio Corbetta e Elisabetta Gualmini dell’Istituto Cattaneo: quello moralizzante di Di Pietro, quello terrigno della Lega e quello delle reti web del comico genovese.
Secondo Orsina il problema è che le classi dirigenti italiane, piuttosto che pensare a come strutturare i meccanismi istituzionali, si sono sempre chieste ‘chi deve stare al potere’, perché le cose sarebbero funzionate e i problemi si sarebbero risolti solo con le élite giuste. Da qui la tendenza all’eticizzazione del discorso politico, con la divisione non più fra opinioni diverse, ma fra opinioni giuste e sbagliate, con queste ultime delegittimate ed estromesse dal dibattito: il che rappresenta il fallimento nella costruzione della dialettica politica.
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di Piermaria Romani
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