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Se penso a Firenze nello scorso week-end pasquale e in previsione di questo nuovo ponte festivo sono afferrato da un brivido di paura. Come è possibile ridurre una città in quello stato e in quelle condizioni? Il percorso di via Calzaioli, dal Duomo a Piazza Signoria, avviene strascicando i piedi e volgarmente urtando chi non cede il passo. Nel loro andare simili alla schiera dei superbi nel Purgatorio. Così Dante: “Maestro, quel ch’io veggio/muovere a noi, non mi sembian persone/e non so che, sì nel veder vaneggio”/ Ed elli a me:” La grave condizione / di lor tormento a terra li rannicchia…” .

Tutti i componenti la processione avanzano tenendo lo sguardo fisso al terzo occhio che non è quello della sapienza ma un più banale telefonino, così quello che ‘loro’ percepiscono della città è un’immagine riflessa. In piazza tra i cavalli bendati delle carrozzelle s’irrigidisce una coppia orientale di sposi: lei avanza con il passo solenne delle sacerdotesse poi, arrivata sotto il Perseo di Cellini, spicca una liberatoria corsa immediatamente ripresa dal fotografo al seguito, rivelando sotto il lungo e bianco vestito le scarpe da tennis. Nel frattempo il cavallo incappucciato molla una sloffa prontamente nascosta dal vetturino. Nella mia via innumerevoli turisti si apprestano a cercar di fotografare dal vivo i cabasisi del ‘Devid’ di Michelangelo. Sventolano bandierine colorate dietro le quali si trascinano folle sudaticce prontamente incanalate nei negozi strapieni di borse e di pellame tenute d’occhio dal ras del quartiere che mi guarda con occhio sprezzante perché oso entrare nel mio portone e interrompere così il torbido andare delle truppe cammellate. Una vecchia penosamente trascina il trasportino cercando di evitare la distesa degli orrendi quadretti esposti sul marciapiede sotto l’occhio algido dei vigili che disprezzando i venditori li fanno fuggire dieci metri più in là, mentre con severa decisione multano un ciclista che osa entrare in sella nella zona pedonalizzata. Non è rumore, ma un continuo strascinìo che sembra di fogliame secco, mentre in un attimo i bidoni della spazzatura, che orgogliosamente ergono il giglio fiorentino, strabordano di rifiuti ma anche di televisioni (giuro!) abbandonate fuor dei gradini del portone accanto al mio. Truppe di americanine miagolanti, parlando col naso s’abbattono sul muretto dell’Orto dei Semplici per potere meglio consultare i loro phones ignare che alle loro spalle inutilmente fioriscono le meravigliose azalee. Nella miglior trattoria, un tempo riservata ai fiorentini, s’allunga la folla di coloro che tentano di entrare; invano se non si ha prenotazione e orario fisso. Puoi mangiare alle 22.45. Se sfori di 5 minuti sei escluso dal paradiso delle bistecche.
E nella notte silenziosa s’alza un russare infinito a cui il Cupolone risponde con l’ombra che non copre più Toscana tutta, ma la perpetua volgarità del magna tu che magno io.
Un rifugio temporaneo è offerto dalla biblioteca-caffè che il teatro Niccolini apre tra velluti e libri: deserta. La raffinatezza spaventa gli hidalghi del tutto compreso.

Si decide di fuggire in campagna.
S’aprono sotto l’azzurro perfetto i consueti scenari di una bellezza senza tempo. Vigneti, boschi, uliveti sembrano offrirsi allo sguardo senza più veli e mente e cuore s’accordano nell’accarezzare le meraviglie donate allo sguardo. Arriviamo a Vinci, il paese che dette i natali a un artista che, secondo un’inchiesta televisiva nella quale si poneva incautamente a giovinetti dalla barba incolta e dal ciuffo brillantinato la domanda “Dove è nato Leonardo da Vinci?” rispondevano cautamente “Milano”. Da lì ci si sposta a Cerreto Guidi, antico feudo dei conti Guidi di dantesca memoria, il cui castello ospita una strepitosa collezione di quadri e il museo della caccia. La villa medicea dichiarata patrimonio dell’Umanità ci si offre nel più completo silenzio: nessuno. Cordiali custodi ci accolgono mentre Lilla gioca con le bambine del luogo venute a coglier margherite nel prato antistante. Il tempo si ferma e io, almeno per una volta, non resisto a fotografare il più bel berceau di glicini che abbia mai visto. Finalmente la cultura prende il sopravvento. Ci sono in collezione due Guercino strepitosi, ma niente ‘Devid’ di nessun autore. Proseguiamo per Montegufoni, antica villa della famiglia Acciaioli comprata nell’Ottocento dal celebre storico Sitwell, che commissionò a Gino Severini la decorazione di una stanza che s’affaccia sulla valle. L’attuale proprietario è dispiaciuto di non potermi far vedere gli affreschi poiché tutto il castello è occupato; ma mi assicura che in maggio mi metterà a disposizione la stanza. Ma vuoi mettere passeggiare incontrando un Ninfeo cinquecentesco e spalliere di rose canine? E il ricordo che qui furono nascosti e ospitati in tempi di guerra celebri quadri dei Musei fiorentini per salvarli dal depredamento dei nazisti?

Ritorniamo nella bolgia dantesca della Città del Fiore ripromettendoci una Pasquetta all’insegna del Chianti. E mal ce ne incolse.
Tra rombanti centauri superiamo a passo d’uomo Greve invasa dai mercatini poi ci spostiamo a Brolio e lì nel castello del barone Bettino Ricasoli che sposò la ferrarese duchessa Massari ho la prima crisi di nervi. Il percorso in salita è quasi di un chilometro. Non è castello per vecchi. Ci trasciniamo Lilla, moglie ed io per le dure e bianche stradine imprecando le mancanze di cartelli avvisatori di tal arduo percorso: “montasi su in Bismantova e ‘n Cacume con esso i piè; ma qui convien ch’om voli…” saggiamente scrive il Poeta. Accesso di furore ariostesco sfogato sull’incolpevole bigliettaia.
Nulla mi dice la fortezza neo-rinascimentale, rifiuto il belvedere e le distese di vigneti e giardini all’italiana; ma i soccorrevoli cognati sprezzando il cammino tornano alla macchina e ci offrono sollievo e conforto. Lilla frattanto gioca a far la vezzosa con possenti maschi pelosi che la osservano vogliosi; ma invano!
Ricordo antiche suggestioni giardinesche e propongo il parco di villa Chigi a Castelnuovo della Berardesca. Arriviamo in un altro dei miei paradeisos. Sotto la Torre dell’Orologio alcune bambine mi fermano chiedendo di potermi fare un ritratto e esibendo schizzi in cui illustrano le loro capacità. Rifiuto gentilmente offrendo loro un gelato che viene rifiutato: l’arte non si paga!
E nel tramonto che dolcemente sfuma i contorni ci si avvia verso la città del fiore. Ecco Siena poi tra l’ululo dei motori dei centauri ci si mette in coda. Tre ore e un quarto più tardi di lontano appare il Cupolone.
L’uovo di Pasqua delle vacanze di massa.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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