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Da “Morante la Luminosa”, a cura di Laura Fortini, Giuliana Misserville e Nadia Setti, a “Liriche del Cinquecento”, a cura di Laura Fortini e Monica Farnetti, all’imperdibile riedizione di un capolavoro come quello scritto 42 anni fa da Natalia Aspesi, “Delle donne non si sa niente”. E per non farci mancare nulla la visione del film (assai brutto) “Mona Lisa Smile” con Julia Roberts nei panni di una improbabile (ora ma non allora) docente di storia dell’arte negli anni Cinquanta nell’università femminile più famosa degli States, Wellesley.

Già la curiosità è forte nel leggere le pagine dedicate a lei, la Luminosa, dalle rappresentanti più interessanti del femminismo nostrano e nucleo forte della Società delle Letterate. Non tanto e non solo perché il soggetto è la Morante, la somma scrittrice che mai si piegò all’esigenze del gender, dichiarando solennemente che lei era uno scrittore. Leggo con confuso imbarazzo la bella presentazione che mette nero su bianco le scelte linguistiche orgogliosamente e giustamente esibite, come quella totalmente nuova per me dell’adozione di un termine “personagge”, che recisamente sostituisce quello di “personaggi”; flebilmente chiedo spiegazioni all’amica Monica Farnetti, ma la risposta è chiara e senza compromessi. “Personagge”, che non ha ancora l’autorevolezza di sindaca o avvocata o quella usata con tanta acribia di “liriche” (non poesie ma autrici) o di altri nomi che rifuggono dal cosidetto neutro che immancabilmente si declina al maschile e che tra poco sarà usato nel significato che le critiche di Morante danno alle sue personagge. Va notato anche un uso ormai praticato da tempo nell’usare non l’articolo “della” Morante, ma l’equanime “di” Morante, come diremmo di Pavese o di d’Annunzio. Non sempre la decisa e forte autorevolezza delle critiche si limita a un riscatto al femminile della Luminosa, la metodologia critica adotta il punto di vista del gender che scopre affascinanti percorsi critici non solo nell’opera della scrittrice ma anche nei luoghi, Roma o Procida o la Spagna in cui sono ambientate le sue storie, fino a un aspetto secondario della sua attrività di critica cinematografica, che mette in imbarazzo, a mio avviso, le brutte versioni cinematografiche dei suoi romanzi: “La Storia” di Comencini e “L’isola di Arturo” di Damiani .

Quanto al film “Monna Lisa Smile”, il cui intento è didatticamente interessante, ma il cui risultato artistico si declina secondo il più bieco conformismo hollywoodiano, risveglia memorie personali di un’esperienza assai simile. Il film racconta dell’arrivo a Wellesley, a metà degli anni Cinquanta, di un’insegnante di storia dell’arte che aiuta le ragazze a disfarsi dalla predominante chiusura culturale imposta dal college che le formava a diventare, quasi un tirocinio, devote mogli di uomini importanti, per affrontare gli stessi rischi e mestieri a quel tempo quasi esclusivo campo dell’attività maschile. A metà degli anni Ottanta ho insegnato a Smith College, un’università femminile altrettanto prestigiosa di Wellesley. Benché il gender impazzasse e ormai alle ragazze non fosse precluso nulla in fatto di scelte e frequentazioni, sessuali, economiche, culturali, rimaneva quell’“aura” di superiorità propria a una classe dirigente che sceglie un certo tipo di università quasi sempre in funzione del suo stato sociale. Certo poi, negli anni in cui ho insegnato presso la stessa università a Firenze sulla cattedra che fu ricoperta da Montale e poi da Guido Fink, ho capito l’estremo divario tra l’università statale italiana veramente democratica e in cui si sommano le migliori intelligenze del Paese e quella americana. Si potrebbe obbiettare che quelle americane sono università private, ma pure le nostre private sono incomparabilmente diverse da quelle statunitensi. E gli studenti americani che passano un anno in Italia capiscono subito la differenza. Certo a metà degli anni Ottanta, invitato alla New York University, a parlare di scrittrici rinascimentali il mio sguardo correva alla piazza vicina: scena sublime dei romanzi di Henry James o di Edith Warthon in cui amavano e soffrivano le personagge di tali colossi.

E infine l’amatissima Aspesi, il cui libro ha segnato un’intera epoca più dei suoi celebri e crudeli aforismi o conclusioni, mai, anche se brucio dal desiderio di dialogare con lei, oserei scriverle una lettera alla rubrica “La posta del cuore” del Venerdì di Repubblica da lei condotta: ne uscirei sconfitto.

Immediatamente da sottolineare che la collana del Saggiatore in cui pubblica il suo libro, si titola “Piccola Cultura”. Un ossimoro che ben si addice all’autrice di questo piccolo capolavoro. Nell’illuminante prefazione, scritta nel giugno del 2015, in cui si riconosce che la presa di coscienza della propria libertà ha condotto a uno stato infinitamente superiore di quello che le donne avevano negli anni Settanta, Aspesi ( vedete non metto l’articolo!!!) nota che “La coppia funziona con più difficoltà di prima perché le donne sono libere di essere come vogliono, ma le mogli e le compagne no, legge o non legge, il pater familias si sente sempre lui, l’uomo”. Infine il paragone con l’altra metà del cielo che non abita le nostre terre e che disperatamente vorrebbe giungervi: “le donne del mondo altro: le schiave, i fantasmi racchiusi nei veli per nascondere anche le mani di chi in quanto donna è impuro, peccaminoso e comunque colpevole, le asassinate perché si ostinano a voler andare a scuola, le stuprate per sottometterle, le derelitte a cui è proibito essere umane per la paura che la loro forza femminile suscita nella fragilità maschile”.

E allora, nella settimana al femminile, ieri sera alla fine di un non troppo sciocca puntata di “Che tempo che fa” c’è stato il miracolo di poter assistere all’intervista che Malala ha concesso a Fazio, c’è stata la possibilità di vedere quegli occhi apparentemente sereni che hanno visto i mostri e li hanno cacciati dal proprio spirito, di constatare che il premio Nobel per la pace è stato assegnato a una ragazzina di diciassette anni che tuttavia sfida il tempo con la saggezza di una donna, del prototipo di donna, di cui tante volte i maschi debbono sentire la superiorità, ma anche un pensiero così incommensurabilmente lontano dal loro.

E come insegnava Ficino non c’è l’armonia del mondo se una parte non è uguale e contraria dell’altra.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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