NELLA CITTÀ DESERTA
Roma, 3 agosto 2019
Oggi invece esco per andare al mercato. Al mercato si parla poco di politica, ma molto di costo della vita, clima e di paranoie alimentari.
Ma oggi sono pochi i banchi aperti, il caldo ha fatto strage.
E arriva la notizia che la signora caduta ieri non ce l’ha fatta.
“S’è buttata de sotto” dicono. Mi viene un groppo in gola.
Immagino di averla incontrata qualche volta a fare la fila alle verdure o al banco dei salumi, ma oggi nessuno qui se la ricorda.
Mentre torno verso casa, incontro un giovane africano che sta spazzando il marciapiede, proprio quello stesso della disgrazia, solo un po’ più in là.
Mi sorride, come se mi conoscesse.
Vedo che ha sistemato dei barattoli di pelati su due banchetti all’inizio e alla fine del tratto di strada che ha stabilito essere di sua competenza e passa avanti e indietro una scopa di saggina, raccogliendo anche qualche residuo con le mani.
Per una volta non vengo assalito da appiccicosi venditori di calzini e penso: bravo questo ragazzo, perlomeno furbo. Fa qualcosa di utile (il marciapiede è pulitissimo ora, gli altri di fronte invece fanno schifo) e poi non ti costringe a sentirti in colpa se non l’aiuti. Ci metto un euro nel barattolo.
Tornando a casa, penso che avrei potuto chiedergli qualcosa su di lui.
Ma intanto la giornata si riempie di piccoli impegni, il cielo si fa oscuro e comincio a vagare nella periferia in cerca di un motore per la mia auto appena sbiellata tra gli sfasciacarrozze inviperiti per un ennesimo pasticcio del Comune (almeno questo sembra, sentendo la loro campana). Durante il viaggio osservo questo nuovo paesaggio urbano che sulla Casilina si colora di sari indù, hijab mediorientali, camicie coreane e caffettani afro e finisco allo sfascio, dove mi accolgono due che sanno tutto di ogni elemento meccanico di qualunque modello di auto, ma fra loro parlano solo rumeno.
Ne giro cinque e sono tutti con lo stesso schema: il padrone è un romano sulla sessantina, bell’uomo scafato dalla voce roca, tipo macchinista del cinema di una volta. I dipendenti, tutti forestieri.
Alla fine risolvo, trovo un motore intatto in un catorcio di lamiere, con la speranza di aver fatto un affare e il dubbio di aver preso una fregatura.
Sotto una cappa minacciosa e opprimente sfreccio in motorino come in un film di Moretti e mi ritrovo al quartiere Parioli, dove sembra che abbiano sganciato una bomba al neutrone, di quelle che lasciano tutto intatto polverizzando solo gli umani.
Se non fosse che nel vuoto, appare un giardiniere sikh mentre sta potando un’edera rampicante perfetta come fosse in una tavola di Escher e qualche domestico orientale costretto a passare l’estate a passeggiare i cani.
Torno finalmente al mio Prenestino, e davanti al supermercato non trovo più il ragazzo che spazza il marciapiede, ma al suo posto c’è il signor Bonaventura, che in realtà è un ragazzo nigeriano che da è da 4 anni in Italia e da sempre vive esclusivamente di elemosina piazzato lì davanti al supermarket.
Ha un bel sorriso, due cuffiette trendy per sentire musica e un aspetto tutt’altro che da barbone. Decido di fargli delle domande.
Gli chiedo se sta cercando lavoro. Dice che no, nessuno lo vorrebbe. “Perché? Non sai fare niente?”. “Ma no,” dice lui, “in Nigeria lavoravo negli hotel, ho imparato anche a usare una macchina per imbottigliare”.
“E allora che ci sei venuto a fare?” “Ho un fratello in Svizzera, lui là guadagna bene.”
C’è sempre un parente, penso io, che spinge gli altri a partire. Magari millantando successi inesistenti per la vergogna di avere, al contrario, fallito.
“Volevo lavorare anch’io nella ristorazione. Ora da due anni ho perfino il permesso di soggiorno”. “E ti sei messo a cercare?”. “Difficile, dice lui. Tu che lavoro fai? Puoi aiutarmi?”. “Io? Faccio documentari.”
Sguardo di delusione. Mi rendo conto di essere inutile.
“Hai provato con la Caritas?” gli chiedo,
“Una volta, ma mi hanno dato dei numeri di telefono che non rispondono mai”.
Non c’è dubbio, è difficile. Ma ci dev’essere qualcos’altro.
Anzi, c’è sicuramente qualcos’altro.
Con una lettura un po’ diffidente, potrei pensare che a lui, benché quello che fa sia deprimente, convenga tutto sommato restare dove sta a tirar su qualche monetina ascoltando musica nelle cuffiette.
Con una lettura empatica, posso immaginare l’enorme fatica, il viaggio tremendo,
i rifiuti subiti, le vessazioni burocratiche e poi la rassegnazione, ancora più inaccettabile alla sua età.
Non sono neanche così ingenuo da non capire che ci sono omissioni nel suo racconto, perfino un po’ di autocommiserazione per strappare qualche spicciolo.
Ma soprattutto silenzi obbligati da ricatti e gente sopra di lui, che ne approfitta.
Eppure non basta solo un’inchiesta giornalistica sui racket a spiegarmi queste vite sprecate. Credo che per capire Bonaventura, e mille altri come lui, non ci siano mai abbastanza orecchie, perché ognuno di loro è una storia diversa, che ha bisogno di più tempo per essere ascoltata.
(continua il 5 agosto)
Per leggere tutti insieme i capitoli del Diario di Daniele Cini:
Diario di un agosto popolare
Oppure leggili uno alla volta:
ANDARE PER STRADA E ASCOLTARE LA VITA
FREQUENZE DISTORTE
Daniele Cini
Caro lettore
Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.
Se già frequentate queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.
Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani. Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito. Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.
Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta. Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .
Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line, le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.
Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e di ogni violenza.
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