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CANNE AL VENTO
22 agosto 2019

In quest’agosto un po’ tetro, ci sono anziani soli che guardano dal balcone i neri nuvoloni che avanzano lentamente. Da quando sono cominciati gli acquazzoni tropicali, ogni giorno ci si aspetta una nuova tragedia: dalle case filtrano gli echi di notizie sconfortanti, di talk show necrofili e di dibattiti faziosi.

Ma a un certo punto questo rumore di fondo della rabbia e dello sconforto, viene coperto da tuoni e lampi che sembrano bombardamenti, e torna un po’ di paura.

Nelle strade ora vuote ci sono solo i cercatori d’immondizia con le loro carrozzine a frugare nei cassonetti, in un’atmosfera dai colori post atomici.

Qualche ritardatario corre, ridendo come un bambino, poco prima che cali un sipario che ricorda le cascate del Niagara.

Quando poi passa il finimondo, e si realizza che non ci sono stati troppi danni, il ritorno del sole, anche qui a Roma Prenestino, trasmette ancora un piccolo stato di grazia, una sorta di inconsapevole gioia di averla scampata.

In pochi minuti, gli umani vengono fuori dalle tane in cui si erano rinchiusi, e come marmotte, si richiamano fra loro con dei lunghi fischi, uscendo all’aperto negli spazi ancora bagnati.

Sarà pure un martedì ma la sensazione è che nessuno ancora ci creda, che siano finite le vacanze. Persino Mario il cinese, un caposaldo del quartiere, ha messo il suo bel cartellino rosa con una scritta ad arcobaleno che dice: Ferie fino al 1 settembre.

Per ritrovare un’atmosfera ciarliera e appizzare il mio orecchio da impiccione, mi tocca fare una decina di isolati.

Capito al bar Ilary, che non è in onore della Clinton ma della moglie di Totti.

E, guarda un po’, è gestito da cinesi.

Appena entro a rifornirmi di un pretesto, (i caffè qui sono a 70 centesimi), entra un cinquantenne galante che apostrofa la cinesina dietro al bancone: “Un bel corretto al vetro dalla mia principessa!” e capisco che Anna, la ragazzina che fa i caffè, è una star esotica per i maturi avventori.

Dato che la movida del bar (interamente maschile) è, come da Mario, nelle seggiole in plastica del déhors, mi sposto fuori col caffè in mano e mi piazzo in piedi in posizione strategica tra due tavolini.

Nel primo a destra cinque ultrasessanteni trafficano, come dei ragazzini, coi loro cellulari. Il tema di cui discutono sembra estratto dal film “Perfetti sconosciuti”. Dicono in sintesi “Co’ sti telefonini non ce se capisce gnente. T’ariveno certi messaggi che se te li legge tu moje, poi chi la sente?” “Ma nun sei bbono a bloccallli?” “Te devi imparà a blocca’ tu moje, no i messaggi…” dice un terzo, strappando uno sghignazzo…

Mi sposto a quello a sinistra, dove il parterre è più giovanile: sono tre cinquantenni che parlano di una pizzeria talmente economica, “’ndo’ fanno ‘na capricciosa co’ du carciofini e ‘na melanzana che fa piagne i morti”. La conversazione non sarebbe degna di essere riportata, se non fosse che a un certo punto i tre cominciano ad abbassare un po’ la voce, costringendomi ad avvicinarmi, anche se di spalle. E piantato lì a origliare, simulo di avere un appuntamento in strada, fingendo di guardare nervosamente il cellulare e le auto in arrivo.

Stanno parlando di hashish. “Ahò, a me l’altra sera m’annava de fammedu cannette e nun trovavo più er fumo: o sai dove stava? L’avevo nascosto in una confezione de merendine, tacci sua! Ce credete che se l’è portata mi fijo a scuola? Pensa si lo beccava la maestra!” e giù sghignazzi a rotta di collo. Si aggiunge un altro: “E a me? Pensa che l’avevo nascosto in un carzino e mi moje l’ha messo in lavatrice! Te possino! Quando l’ho tolto dalla lavatrice era fracico e s’era ammischiatocorcarzino! Allora io c’ho fatto? Ho asciugato ercarzinocor fero da stiro ed è venuto su un fumo ner naso… Non puoi capì come stavo! La vedi sta pozza da qui a lamaghina? Cecaminavo sopra come Gesù Cristo!” E di nuovo a ridere come forsennati.

Vorrei ascoltare di più ma temo di essere preso per un detective della narcotici e mi tocca cambiare bar.

Ma intanto non posso non notare che questo consesso di maschi è unito da almeno due cose: il gusto un po’ infantile della trasgressione e la costante presenza nei loro discorsi della figura della moglie. Padri di famiglia, mariti italianissimi, dall’aspetto tutt’altro che fricchettone.

Mi resta la curiosità della pizzeria con la triste capricciosa (che ancora non conoscevo) e decido di cercarla. E mentre mi allontano, rifletto sul fatto – non so quanto attendibile – che ormai hashish e marijuana siano diventati, a partire dagli anni ’70, parte di un lato semi segreto, innocentemente irresponsabile, di ogni generazione, attraversando ogni classe sociale.

Sarà pure che da quando ho deciso di mettermi in ascolto mi accorgo di cose che prima non notavo, ma guarda caso, appena arrivo, sento fra i tavoli, dove i clienti si stanno spazzolando supplì, crostini e pizze di tutti i sapori, l’odore tipico di uno spinello bello carico.

Cerco con lo sguardo da dove possa arrivare. C’è un tavolo con una famiglia in cui sono tutti grassi, compresa la nonna. Una coppia dall’aria stanca, con un figlio disabile su una carrozzina. Un signore pallido dall’aria insalubre. Un gruppo dopolavoristico di colleghi che sembrano bancari: nessuno di loro sta fumando, chissà dove l’hanno nascosto.

Nel cielo ora appare un arcobaleno vero, non quello in cartone delle ferie di Mario, che rende saturi tutti i colori di via Malatesta: e nonostante quest’estate sia stata prodiga di disgrazie, questa sera svaporano nel fumo di una cannetta.

(continua giovedì, 25 agosto)

Per leggere tutti insieme i capitoli del Diario di Daniele Cini:

Diario di un agosto popolare


Oppure leggili uno alla volta:

ANDARE PER STRADA E ASCOLTARE LA VITA

STRANI STRANIERI

CORPI DIMENTICATI

NELLA CITTA’ DESERTA

COCCIA DI MORTO

FINCHÉ C’É LA SALUTE

LA BOLLA SVEDESE

STELLE CADENTI

LA METRO, IL BUS E LO SCOOTER

FREQUENZE DISTORTE

CANNE AL VENTO

L’OTTIMISMO DURA POCO

LA TORBELLA DI ADAMO

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Daniele Cini

è regista e autore. Dagli anni Ottanta Collabora continuativamente come regista con i programmi più importanti della Rai e realizza reportage in vari paesi del mondo. Nella fiction cura la regia di serie televisive, come “La Squadra”. Per il cinema firma il film “Last Food”, il mediometraggio “Zittitutti”, e due episodi nei film collettivi “Intolerance” e “All human rights for all”. Tra i documentari: “Sogni.com” per Rai Fiction, “Seconda Patria” per History Channel, “Noi che siamo ancora vive” per Rai 3, Globo d’oro nel 2009, “Bambini guerrieri” per Rai 1 e “Hungry and Foolish” per Rai Expo. Nel 2021, in collaborazione con Medici Senza Frontiere, realizza il film documentario “La febbre di Gennaro”, Nel 2022 il documentario “Il ragazzo con la Leika”, 60 anni d’Italia nello sguardo di Gianni Berengo Gardin, trasmesso su Rai 2. Nel 2004 ha pubblicato per Voland “Io, la rivoluzione e il babbo” e nel 2020 per Giunti “Se son rose sfioriranno” .

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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