Skip to main content

Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


SEGUE. Ecco la seconda parte dell’intervista a Marco Mori, avvocato e autore del libro “Il tramonto della democrazia. Analisi giuridica della genesi di una dittatura europea”.

Io ho dato Diritto Costituzionale all’Università, ma mi erano sfuggite tante considerazioni che invece tu fai nel libro. Ci parli della lotta tra Keynes e Neoliberismo nel dibattito dei Padri Costituenti e del perché vince l’idea keynesiana?
L’idea keynesiana è l’unica corretta. Il Neoliberismo è solo un metodo di governo, funzionale al superamento della democrazia in favore delle oligarchie, una sorta di restaurazione mascherata da scienza. D’altronde, come ricordava Keynes in “Autarchia economica”, di imbecilli e obnubilati che immaginano la società come la parodia dell’incubo del contabile è pieno il mondo. Non possiamo dotarci delle meraviglie di cui siamo tecnicamente capaci perché esse economicamente non rendono, meglio tenere i popoli nella disoccupazione, perché così la resa economica (per gli altri) è maggiore. In ogni caso, da giurista, la diatriba neoclassici-Keynes mi appassiona molto poco: il modello Costituzionale ha sposato Keynes e dunque la Repubblica deve perseguire quel tipo di politiche senza se e senza ma. Sotto il piano empirico è comunque impossibile smentire il fatto che il modello neoliberista abbia causato la Seconda Guerra Mondiale e che, ovunque è applicato, abbia generato una graduale concentrazione della ricchezza nelle mani di un gruppo di persone sempre più piccolo a discapito di tutti gli altri. Oggi l’1% della popolazione mondiale detiene il 99% della ricchezza, negare l’evidenza comincia ad assomigliare sempre più ad un crimine contro l’umanità. Il Neoliberismo, se mi passi una battuta, è quell’assurda teoria secondo la quale giocando a monopoli le partite dovrebbero finire sempre in pareggio…

Quindi l’Italia dovrebbe essere keynesiana. E l’Unione Europea che tipo di politica economica adotta?
L’Italia è “keynesiana”, così dice la Costituzione. L’Unione Europea è neoliberista, visto il combinato degli artt. 127 Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) e 3 Tue (Trattato Unione Europea), antepone la stabilità dei prezzi addirittura alla pace e al benessere dei popoli! Il sistema europeo delle banche centrali si occupa degli obiettivi dell’art. 3, appunto pace e benessere, solo fatta salva la stabilità dei prezzi. Davvero: ma che vi serve ancora per capire? Siamo alla follia! Per non tacere della forte competitività tra consociati che assume a valore fondante, valore diametralmente in contrasto, come ho detto, con i nostri principi di solidarietà. Solo la solidarietà tende alla pace, la competizione è comunque conflitto, quando accade tra le nazioni poi finisce malissimo, porta sempre alla guerra.

Marco, ma uno Stato può fallire? O forse dovrei chiederti, quando uno Stato può fallire? Nel tuo libro troviamo interessanti considerazioni su questo aspetto.
Uno Stato non può fallire, lo ha ribadito anche l’ex Presidente della Corte Costituzionale Zagrebelsky. Il popolo di uno Stato può essere ricco o povero, ma lo Stato non può mai fallire perché può adempiere illimitatamente alle proprie obbligazioni pecuniarie emettendo la sua moneta. Il punto è che, avendo ceduto la sovranità monetaria, non siamo più uno Stato: in questa condizione ciò che rimane dell’ex Stato Italia, questo residuo di ordinamento, può effettivamente tecnicamente fallire. Trattasi dell’esempio più sconcertante di quel potere economico diventato così forte da schiacciare le democrazie, l’incubo di Ghidini e degli altri Padri Costituenti si è concretizzato.

Nel tuo libro parli anche delle tasse, perché mai le tasse trovano spazio nella nostra Costituzione, nel Titolo IV, tra i “rapporti politici”? Cosa volevano dirci i Padri Costituenti?
Parafrasando ancora Keynes, solo un imbecille affermerebbe che in uno Stato le tasse servono a pagare i servizi pubblici. Le tasse servono a fare politica, impongono la moneta, redistribuiscono il reddito e tutelano il risparmio, impedendo che gli eventuali eccessi di emissione producano inflazione eccessiva. Le tasse si pagano solo perché lo Stato ha prima dato ai cittadini la moneta per pagarle, che altrimenti semplicemente non esisterebbe. Oggi le tasse pagano i servizi solo perché non siamo più uno Stato, abbiamo ceduto la sovranità, dobbiamo chiedere in prestito ai mercati ogni singolo euro utilizzato.

Mi è sembrato di capire che l’Iva non è tra le tue tasse preferite.
L’Iva è incostituzionale, resiste ancora solo perché la Corte non ha mai avuto coraggio di dire le cose come stanno, non ha mai preso di petto gli altri poteri dello Stato, nell’illusione che ci fosse una situazione di emergenza contabile, che in realtà non esiste più da quando la moneta è fiat (cioè dal 15 agosto 1971, quando il Presidente Nixon dichiarò non più validi gli accordi di Bretton Woods n.d.a.). L’articolo 53 è chiaro: le tasse si pagano secondo la capacità contributiva e devono essere progressive. L’unico indice di capacità contributiva è il reddito, non come spendo ciò che ho guadagnato: la mia propensione al consumo non cambia la mia capacità contributiva. L’Iva poi, essendo un’imposta indiretta, è addirittura regressiva, incide percentualmente più sui redditi bassi che su quelli alti. Nonostante nel 1947 il sistema monetario fosse diverso da quello attuale, i Padri Costituenti ebbero la lucidità di scolpire questi concetti nei verbali. Ci fu solo una concessione alle imposte indirette, di cui l’Iva è la principale quanto a gettito: in denegata ipotesi le imposte indirette furono ritenute ammissibili sui beni non necessari e di lusso. Queste furono le parole dell’Onorevole Ruini. Se i Padri Costituenti avessero vissuto con le attuali regole monetarie, tale concessione non avrebbe trovato spazio alcuno e l’indice di capacità contributiva sarebbe stato solo il reddito, senza eccezioni. Peraltro, quando la Corte Costituzionale, a partire dagli anni Sessanta, avallò alcuni dei più odiosi tributi indiretti, il contesto era molto diverso da quello attuale, la pressione fiscale complessiva era drasticamente più bassa e l’Italia aveva la sua sovranità. Con il senno del poi, la conseguenza di quell’errore in diritto da parte della Corte ha avuto conseguenze gravissime: oggi per sostenere tale tesi in giudizio occorrerebbe prima convincere un magistrato a criticare le precedenti sentenze della Corte Costituzionale, cosa assai complessa e rara, specie con il costante martellamento mediatico contro gli evasori fiscali. In ogni caso non è impossibile, la Corte può anche mutare un suo precedente indirizzo.

E allora che giudizio daresti all’aliquota unica proposta da qualche partito politico?
L’aliquota unica non è progressiva. Un meccanismo di detrazioni può renderla più progressiva, come ben ha spiegato Claudio Borghi (attualmente economista di riferimento della Lega Nord n.d.a.) che stimo moltissimo, ma siamo comunque fuori dal rispetto dell’art. 53 della Costituzione e, più in in generale, dei principi di uguaglianza e solidarietà politica, economica e sociale. Il limite della sua idea, sotto il profilo squisitamente giuridico, è proprio che al salire del reddito la progressività si attenua fino quasi a sparire e peraltro già a partire da redditi non così elevati. La curva fiscale deve essere più proporzionale, con più aliquote. Ciò non toglie la possibilità, anzi il dovere, di abbassare drasticamente l’imposizione e soprattutto di togliere fin da subito le imposte indirette che esulino dall’interpretazione autentica dell’art. 53 e, dunque, che non siano su beni non necessari e di lusso.

In questo libro, davvero molto intenso e ricco di spunti, trovano posto anche lo Sme e il ‘divorzio’ tra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia.
Sono pezzi di storia. L’analisi non sarebbe stata completa senza. Maastricht arriva al culmine di un percorso, di una crisi economica causata da divorzio prima e Sme poi. Nel libro ho riportato integralmente lo scambio epistolare tra Andreatta (allora Ministro del Tesoro) e Ciampi (governatore di Banca d’Italia) e poi la clamorosa dichiarazione di Andreatta, a dieci anni dal divorzio, nella quale definì quanto compiuto una “congiura aperta”. Sul punto vi rimando alla lettura perché è davvero storia: la storia drammatica di come è iniziata la morte di uno Stato.

Quali sono le riforme costituzionali in corso. E a cosa ci porteranno?
Consolideranno la dittatura, esattamente come il Fascismo fece con la legge Acerbo. La differenza è che allora il regime voleva il potere, ma anche un’Italia forte. Si riaffermava la personalità dello Stato, oggi invece il Governo vuole svenderci al capitale internazionale. Vogliono una sorta di governo di occupazione che esegua gli ordini di Bruxelles, ecco in cosa consiste questa riforma, voluta da quelli che Giuseppe Palma chiama nel suo libro “Figli Destituenti”.

Questi nuovi costituenti sono all’altezza del compito? Quelli del 1947 avevano creato commissioni, un’Assemblea, un grande dibattito, stando ai resoconti riportati nel tuo libro. Oggi come stanno procedendo?
Sono traditori della Repubblica, stanno commettendo atti eversivi. Trovo in loro un mix letale di malafede e ignoranza, molti dimostrano davvero di non sapere quello che fanno. Questo ovviamente attenua la posizione sotto il profilo penale, ma non sposta nulla in merito ai gravi effetti del loro operato sul popolo italiano. Nel libro sono stato molto duro anche con la Corte Costituzionale che, di fatto, in collaborazione con Napolitano, ha impedito lo scioglimento di un Parlamento illegittimo, che oggi sta mutando con arroganza inaudita la Costituzione. Sfido pubblicamente i magistrati che hanno redatto la sentenza, una volta letto il libro, a confutare le mie argomentazioni giuridiche di aspra critica verso il loro operato. La Corte doveva dichiarare incostituzionale il porcellum, non doveva e non poteva fare politica salvando le Camere. Camere che oggi detengono abusivamente il potere politico, fatto ancora una volta punibile per il codice penale (art. 287) a prescindere da ciò che ha detto la Corte Costituzionale.

L’ultima parte del libro è dedicata alle soluzioni. Inizi parlando di un piano industriale, però riporti un tweet del nostro Presidente del Consiglio che ci sconforta parecchio: “non tocca al governo fare piani industriali”. Chi li dovrebbe fare allora?
Il Governo non serve più a nulla, esegue solo ordini: gli ordini di Bruxelles. L’interesse nazionale non ci riguarda più. In condizioni normali il piano industriale è quanto di più importante debbano concepire gli eletti del popolo, sul punto è la sovranità popolare che dovrebbe trovare attuazione e non i voleri dei mercati.

Le tue soluzioni hanno in comune un aspetto fondamentale: l’interesse pubblico. Interessa a qualcuno l’interesse pubblico?
Interessa al popolo italiano, o meglio gli interesserebbe se avesse accesso alle informazioni necessarie per prendere atto della sua attuale condizione. Il lato furbissimo di questo nuovo totalitarismo è che non vediamo soldati o polizia per le strade a sottometterci, ciò che ci sottomette è nel nostro portafoglio: l’euro.

Ferrara film corto festival

Iscrivi il tuo film su ferrarafilmcorto.it

dal 23 al 26 ottobre 2024
Quattro giorni di eventi internazionali dedicati al cinema indipendente, alle opere prime, all’innovazione e ai corti a tematica ambientale.

tag:

Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

I commenti sono chiusi.


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it