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Non è semplice staccarsi dalle cose, da quegli oggetti nei cui confronti coltiviamo un sentimento indefinibile, quasi fosse affetto irrinunciabile. Non è facile allontanarci da ciò che abbiamo raccolto nei nostri reliquiari personali sparsi in casa, ammirati e conservati gelosamente perché spesso ci ricordano persone, fatti, eventi, storie, momenti unici e particolari di grande impatto; una serie a volte esagerata di segni e simboli che rappresentano qualcosa per noi importante o, semplicemente, riempitivo di qualcos’altro che ci manca interiormente e ci ‘sazia’. Manufatti di pregio, cianfrusaglie, gadget dalle origini più disparate, souvenir, soprammobili, vecchi elettrodomestici in disuso, pacchi di riviste e giornali, capi di abbigliamento decennali, bottoni, nastrini, bomboniere, cartoline e santini, vecchi promemoria, scontrini, scatole e contenitori. Un elenco a cui si possono aggiungere mille altre cose. Accumuliamo, spolveriamo e manipoliamo una quantità di oggetti, titubanti e alla fine incapaci di sbarazzarcene, anche se consci dello scarso valore economico e affettivo che frequentemente rappresentano.
Gli oggetti esercitano il proprio potere attraverso la loro capacità e proprietà di significare e possono costituire un cordone ombelicale che unisce alle certezze e all’appagamento emotivo con l’esterno, oppure uno scudo per isolarsi da tutto e creare una realtà fittizia. Il bisogno di possedere per colmare vuoti può assumere i connotati patologici che descrivono l’accumulo compulsivo creando situazioni di pesante disagio. Rituali, ordine e simmetria maniacali, accompagnano operazioni classificatorie di oggetti e suddivisioni delle cose in categorie, ognuna delle quali rappresenta una storia.

Il collezionismo, la raccolta sistematica e ossessiva, vengono spesso coniugati all’avarizia, al bisogno famelico di possesso. Negli ultimi due secoli, la letteratura si sofferma, evoca, descrive o esalta le cose fisiche nella narrazione in modo non imparziale; predilige oggetti inutili, invecchiati, insoliti piuttosto che utili nuovi, normali. Mette in evidenza il non-funzionale rispetto al funzionale, la malinconia del transitorio, la comicità del frusto, le suggestioni storiche, le ossessioni del simbolo, gli elementi magici straordinari, le atmosfere sinistre, la volgarità del kitsch piuttosto che l’eleganza dell’antiquariato bello. ‘Auto da fé’ di Elias Canetti (1935), bandito all’epoca dal nazismo e riscoperto con molta attenzione negli anni Sessanta, è ambientato nella Vienna del 1920. Racconta di un sinologo quarantenne, Peter Kien, che vive una condizione maniacale di isolamento dal mondo esterno, circondato dalle migliaia di volumi della sua biblioteca privata, sfuggendo al contatto umano e sociale. Cade vittima della donna di servizio Therese, che sposerà, e del violento portiere Benedikt, che lo porteranno alla rovina. Dopo aver attraversato esperienze cha passano dal banco dei pegni alla stazione di polizia e alla scena di un assassinio, verrà ristabilito l’ordine iniziale con l’intervento di suo fratello psichiatra, che lo aiuterà a ritrovare il ‘suo’ mondo originario. La scena finale apocalittica, che ricorda fin troppo lo storico rogo nazista delle opere letterarie definite sovversive, vede Kien lanciarsi tra le fiamme insieme ai suoi libri, bruciando insieme ad essi. In ‘Il pugno chiuso’ di Arrigo Boito (1870), l’usuraio Levy è tormentato dall’idea fissa di quell’unico fiorino mancante alla sua collezione da un milione. Se lo procurerà in sogno, un sogno maledetto, perché al risveglio non gli riesce di aprire il pugno in cui aveva stretto la moneta. La stessa bramosia febbrile colpisce due coniugi nel romanzo di Goffredo PariseI coniugi Sparagna’ (1955), che gestiscono una cartolibreria stracolma di cose, strabordante di oggetti per ogni uso. C’è anche una collezione di maschere di carnevale ingiallite dal tempo, che non vogliono vendere se non a un prezzo improponibile, per evitare di separarsene. Un ragazzo a cui è stata negata una maschera cinese, organizza un furto con la sua banda, e da quel giorno inizia la decadenza fatale del negozio. “Esso andò via via trasformandosi, con l’andare del tempo, in un bazar concepito senza criterio alcuno, di oggetti sciocchi e privi di gusto, disposti con un disordine assolutamente diverso da quello che regnava prima: chè prima, il disordine era di origine fantastica e quasi romantica mentre in seguito era dovuto solo a pigrizia e incuria”. I coniugi Sparagna si ritrovano soli e svuotati della loro ‘intima risorsa’. E di collezionismo particolare parla anche il romanzo di Michele MariI palloni del Signor Kurz’ del 1993. Kurz raccoglie e colleziona i palloni da calcio che accidentalmente cadono nel suo cortile, come fossero pezzi da museo. Sembra quasi che raccattando i palloni, catturi anche l’innocenza e la spontaneità dei bambini che giocano. Uno di essi immagina Kurz come un grosso e vorace ragno nero che con le sue zampe pelose afferra le prede. Decide di visitare di nascosto la casa dell’uomo e scopre che i palloni sono là, conservati, messi in mostra, quasi animati da una qualche forma di vita. E’ contento che ci siano ancora tutti, sopravvissuti e custoditi ed è per questa intima sensazione di soddisfazione appagata che, quando riceverà come regalo un pallone, deciderà di lanciarlo nel giardino di Kurz, conscio del fatto che darà continuità alla collezione. E con questo, assumerà egli stesso l’atteggiamento ossessivo dello strano collezionista.
Utz‘ è l’ultima opera di Bruce Chatwin, scritta un anno prima di morire, nel 1988. Un romanzo breve in cui le ossessioni e l’attaccamento all’oggetto sono la scena costante della narrazione. Utz colleziona statuine di porcellana, che ha difeso e preservato dall’occupazione nazista a Praga e che continua a difendere dopo l’occupazione sovietica del 1974. Utz intesse intorno alle statuine il suo mondo fuori dal tempo, immergendosi in una realtà costruita, per lui più autentica del reale. Un rapporto quasi simbiotico tra l’uomo e le ‘creature’ di porcellana, in cui si scorge una forma di schiavitù tra l’essere umano e l’oggetto. Utz abbandonerà questo atteggiamento nel momento in cui deciderà di disfarsi della sua collezione e quella che viene definita la sua ‘Porzellankrakheit’ – malattia della porcellana – sparirà insieme alle lucide creature. “Si tratta di un uomo che si è rovinato la vita aggrappandosi alla sua meravigliosa collezione di statuine di Meissen, tra gli orrori della Seconda guerra mondiale e i primi anni dello stalinismo”, riassumeva Chatwin a un amico. “La mania del collezionismo, l’attaccamento morboso alle statuette gli permettono, se non altro, di rivivere un’epoca di splendore contro la barbarie culturale di due regimi a cui l’uomo era sottoposto.”

Oggetti inutili che coprono le voragini interiori e si accumulano nelle stanze, nelle cantine, nei garage e nei nostri luoghi dell’esistenza senza che abbiamo il coraggio di sbarazzarcene; oggetti che allietano la nostra vita e il nostro bisogno di bellezza contro il grigiore esistenziale; oggetti che richiamano e vincolano la memoria, senza la quale non abbiamo storia; oggetti che intercettano e ospitano le nostre più remote sensazioni, perché, come scriveva Pirandello nel suo ‘Il fu Mattia Pascal’, la fantasia abbellisce l’oggetto e nell’oggetto ci mettiamo noi stessi, l’accordo, l’armonia che stabiliamo tra noi ed esso, l’anima che esso acquista per noi soltanto e che è formata dai nostri ricordi. Una sensazione che hanno provato intensamente tutti coloro che hanno dovuto forzatamente lasciare le loro ‘cose’ improvvisamente, senza preavviso, nelle abitazioni sotto il ponte Morandi, nelle case evacuate durante sfollamenti emergenziali, nelle stanze piene di crepe delle zone terremotate e sotto le macerie. Cose accumulate in una vita, banali, a volte dimenticate, che acquistano un immediato valore quando devono essere selezionate, recuperate e ‘salvate’ per mantenere vivo quel sottile filo che lega il ricordo del passato a un imponderabile futuro.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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