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Un cibo che sembrava estinto. La ricetta seppellita in un manuale del Rinascimento di Ferrara. A farla rivivere, nel primo ’900, arriva una signora che gestisce la rosticceria del quartiere ebraico cittadino, ma le leggi razziali la obbligano a chiudere. Quel piatto – adesso – torna a prendere forma e sapore grazie alla testardaggine di un’altra signora. Protagonista di questa avventura con tante peripezie a cavallo dei secoli è il caviale del Po: un nome altisonante e misterioso, che evoca tavole imbandite per commensali esclusivi, ma che si lega anche al nome del fiume che impregna questa terra. La fonte primaria che dà sostanza alla specialità è il pesce storione, estinto dal Po, spazzato via dai miasmi delle acque del grande fiume corrotto e invaso da nuovi predatori, e quindi impossibilitato a crescere e concepire quelle uova così preziose. Insomma, un piatto avvolto da un alone di mistero, riportato in tavola a dispetto di difficoltà dure come quelle leggi terribili e come un disastroso capovolgimento ambientale.

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Cristina Maresi al Mercato della terra di Slow food, a Ferrara, con la produzione del suo caviale del Po (foto Sara Cambioli)

Il libro e l’incontro. Sapore perduto che riemerge dall’archeologia culinaria e si offre a forchette ambiziose, raffinate, curiose. A raccontare il rocambolesco ritorno di questa pietanza è Michele Marziani che ci ha scritto sopra un libro – “Il caviale del Po” – e lo presenta giovedì prossimo, 9 aprile, a Ferrara. A riproporne la sostanza è invece la cucina di quella signora che l’ha voluto realizzare oggi, a costo di andarsi a prelevare le uova da un allevamento sperduto di questa specie ittica, dopo essersi assicurata l’insegnamento dell’ultima delle sue cuoche. La signora che lo fa è Cristina Maresi – che ne parlerà giovedì insieme all’autore del libro – e che fa rivivere la pietanza citata dal famoso cuoco della corte estense, Cristoforo Messisbugo. Lo produce nel suo agriturismo di Runco (vicino a Portomaggiore) e lo mette in vendita quasi tutti i sabati al Mercato della Terra organizzato da Slow food sui baluardi di viale Alfonso d’Este, a Ferrara.

Il pesce storione. In comune con quello celebrato dai ricevimenti alla James Bond, il caviale del Po ha il fascino, il costo elevato e la raffinatezza; ma non bisogna aspettarsi di vederlo così smaccatamente a palline e nemmeno di assaporare la specialità cruda e soda sotto ai denti. Perché il caviale locale è una preparazione cotta e più omogenea, condita e centellinata – come il suo omologo “global” di origine russa – sopra a tartine di lusso. Entrambi i caviali si fanno con le uova dello storione di specie ladano, meglio conosciuto come beluga. In Italia il pesce spazzato via dal Po è stato re-impiantato a Santa Cristina di Treviso, 120 chilometri sopra a Ferrara, nelle vasche predisposte con un fondale ghiaioso e riempite dalle acque vicine alla sorgente del fiume Sile.

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Caviale di storione imbandito in occasione del Carnevale rinascimentale 2015 (foto dal portale del Carnevale rinascimentale di Ferrara)

Scalchi, rosticciere e cuoche. La prima notizia della cattura e della lavorazione dello storione è datata 1° gennaio 1501, quando serve per imbandire il pranzo di nozze di Alfonso I d’Este con Lucrezia Borgia. A dare testimonianza scritta della preparazione del favoloso caviale del Po è invece il manuale di ricette di Cristoforo Messisbugo, cuoco di corte, intitolato di “Banchetti, composizioni di vivande et apparecchio generale”, edito a Ferrara nel 1549, un anno dopo la sua morte. Un altro libro rievoca quel piatto cinquecento-e-passa anni dopo; è “Il giardino dei Finzi-Contini” di Giorgio Bassani, che menziona la rosticceria di Benvenuta Ascoli, detta Nuta. Negli anni ’30 la Nuta produce e vende il caviale padano alla clientela del ghetto ebraico, nel negozio di via Mazzini accanto alla sinagoga. La serranda della rosticceria è costretta ad abbassarsi a causa delle leggi razziali fasciste, che colpiscono i cittadini di origine ebraica. Nel 1940, però, la rivendita alimentare viene rilevata da Adolfo Bianconi, ex garzone della Nuta, che torna a produrre e vendere il caviale del Po insieme con la moglie Matilde Bianconi, detta Tilde. A cercare di tenere viva la memoria di preparazione del piatto entra in scena la passione di un notaio buongustaio, Enrico Brighenti, che si accorda con la signora Bianconi perché passi la ricetta alla sua cuoca, Giuseppina Bottoni.

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Il negozio della Nuta in un’immagine storica (foto dal sito dell’agriturismo Le Occare di Cristina Maresi)

Qui il filone di continuità della storia sembra interrompersi. Finché Giuseppina non fa da maestra-cuoca a una nuova aspirante cheffa, che è Cristina Maresi. La signora si incaponisce su quel piatto e si mette a cercare gli storioni. Li trova, ma deve aspettare che uno di quei grandi pesci faccia le uova. Finalmente una telefonata interurbana le annuncia che lo storione ha deposto il prezioso carico. E lei esegue le istruzioni tramandate dalla Nuta a Tilde fino a Giuseppina e indicate dal leggendario scalco ducale: “Ponerai le uova nel forno che sia onestamente caldo per spazio di due pater noster”. Preghiera esaudita. Il caviale del Po torna sano e salvo.

L’appuntamento. Per conoscere meglio questo cibo c’è un incontro che fa parte della rassegna su “Il mito di Ferrara”, organizzata dalla Pro loco estense. Dedicato al Caviale del Po l’appuntamento di giovedì 9 aprile alle 17 nella sala dell’Arengo dell’ex palazzo ducale, ora sede del Comune di Ferrara, piazza Municipale 2.

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Giorgia Mazzotti

Da sempre attenta al rapporto tra parola e immagine, è giornalista professionista. Laurea in Lettere e filosofia e Accademia di belle arti, è autrice di “Breviario della coppia” (Corraini, Mantova 1996), “Tazio Nuvolari. Luoghi e dimore” (Ogni Uomo è Tutti Gli Uomini, Bologna 2012) e del contributo su “La comunicazione, la stampa e l’editoria” in “Arte contemporanea a Ferrara” sull’attività espositiva di Palazzo dei Diamanti 1963-1993 (collana Studi Umanistici Università di Ferrara, Mimesis, Milano 2017). Ha curato la mostra “Gian Pietro Testa, il giornalista che amava dipingere”

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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