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Di futuro si deve parlare, eppure il futuro sembra scomparso dal nostro tempo presente. Ogni giorno siamo sempre più stritolati tra il passato e il presente, per l’effetto della crisi e delle nuove paure. Anche da questo ci si difende con la conoscenza, imparando a imparare. Avremmo bisogno tutti di praticare i Future Forum sostenuti dall’Ocse, per scrivere le nostre agende del domani. Un luogo dove iniziare a delineare gli scenari futuri, non abbiamo bisogno di sognare, ma di immaginare il nuovo possibile. Le nostre città di questi luoghi sono avare, la nostra vita non ha spazi per disegnare il futuro. Eppure essere cittadini oggi non è solo farsi amministrare, farsi governare, ma è un pensare collettivo, forse è questa la nuova frontiera della partecipazione. Sentire la responsabilità del futuro, del futuro di lavoro e impresa, della città, della salute e della scienza, del turismo e delle industrie creative, della cultura e della diffusione dei saperi, cibo, nutrizione, cultura digitale e tanto altro ancora. Ce n’è da fare per tutti, in un tempo che non vuole più delegare, che ha coscienza di cosa significhi cittadinanza.
A questo bisogno di consapevolezza collettiva c’è il rischio che si risponda con il ritorno al passato come luogo delle sicurezze, con un ritorno della fede nell’irrazionale anziché nello sforzo di pensare e conoscere proprio dell’uomo, facendo scendere la saracinesca del buio sul nostro futuro, sulla fiducia nell’uomo e nella ragione.
Le città, i luoghi più abitati e più vivi, sono l’antidoto a tutto ciò. Le stesse città che oggi rischiano d’essere ridotte ai ghetti dell’insicurezza e dell’inquinamento, perché nessuno ha mai parlato delle vite che vi abitano, occupati più di servire questo o quell’altro interesse economico, commerciale o imprenditoriale. Le città sfruttate, le città ridotte a mercato, le città consumate. Le città morte per le persone. Pensare al futuro significa riscattare le nostre esistenze e le nostre città da tutto ciò.
Le città sono il luogo della conoscenza e del pensiero, le città i cui abitanti in tutto il mondo attualmente crescono al ritmo di 65 milioni di individui l’anno, come sette nuove Chicago alla volta. La città è il contesto ideale per la produzione e lo scambio di conoscenze, nella città contemporanea la formazione continua, lo sviluppo del potenziale umano e sociale, costituiscono i più importanti strumenti di crescita. I casi virtuosi di Dublino, Kaunas e Swansea, che hanno trasformato l’apprendimento continuo in un volano di crescita, stimolando la partecipazione dei cittadini allo sviluppo di nuove iniziative economiche e sociali, lo dimostrano.
Non è più tempo di attendere il futuro senza dare priorità agli interrogativi che interpellano ora la nostra cittadinanza, di oscurare gli scenari di una possibile evoluzione da qui a una ventina d’anni. Come cambieranno i saperi, la scuola, la formazione, i media e le tecnologie che ci mettono in comunicazione? Come cambieranno le città, i centri storici, i modi dell’autogoverno, le forme collaborative?
La malattia per il passato è oggi il nostro virus, se non sappiamo vedere lontano saremo sopraffatti dai nostri futuri. Non permettiamo a nessuno di abbindolarci, non permettiamo a nessuno di rubarci il futuro, ogni giorno inventando una ragione nuova per rincorrere il presente.
Una città dove la popolazione non ha sete di conoscenza è oggi una città più che mai fragile. Per rispondere attivamente alle sfide della sostenibilità, dell’invecchiamento, dei flussi di migranti che cercano una vita migliore, è essenziale che tutti siano posti nelle condizioni di mantenersi al passo con le conoscenze più recenti. La società dell’informazione impone la necessità di un aggiornamento e un approfondimento continuativi. Servono esperienze nuove e condivise per produrre nuova cultura insieme. E servono luoghi fisici, non solo virtuali come la rete, per farlo.
La complessità del ventunesimo secolo, lo scorcio di millennio che abbiamo già vissuto, ci sono stati sufficienti per comprendere che non basta dire “immaginiamo il futuro”; prima di tutto bisogna imparare a immaginarlo. Ma come? Per Peter Bishop, fondatore di “Teach the Future” – organizzazione che incoraggia e promuove l’insegnamento del futuro nella scuola – il crescente tasso di cambiamento nella società di oggi impone che studenti ed educatori abbiano dimestichezza con strumenti e tecniche previsionali. Conoscere il passato non basta più. Solo studiando il futuro si può influenzarlo e piegarlo alle proprie esigenze. Perché le visioni di oggi cambiano il domani.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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