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Speranza e apocalisse nel pensiero contemporaneo

Speranza e apocalisse nel pensiero contemporaneo

Cosa significa vivere quando il mondo, così come lo conosciamo, sembra dissolversi? In tempi segnati da crisi ecologiche, guerre, estinzioni di massa, disorientamento culturale e smarrimento simbolico, la filosofia e l’antropologia (ma anche la scienza) sembrerebbero tornare a interrogarsi sulla fine del mondo vista non come un evento cosmico, ma come esperienza umana di perdita del senso.

Il filosofo tedesco Wolfram Eilenberger, nel suo recente I fantasmi del presente (Feltrinelli, 2025) propone una riflessione sulla condizione attuale dell’umanità, attingendo alla nozione di speranza radicale elaborata dal filosofo e psicoanalista statunitense Jonathan Lear: una forma di speranza che resiste anche quando le coordinate culturali e simboliche sono crollate, quando non si sa più cosa sperare.

Questa speranza non è ottimismo, ma apertura al possibile, anche nel vuoto.

A questa visione si potrebbe affiancare, per affinità tematica, il pensiero dell’antropologo italiano Ernesto De Martino, che nella sua analisi delle apocalissi culturali in La fine del mondo: contributo all’analisi delle apocalissi culturali (Einaudi, 2019) descrive il momento in cui la “presenza” dell’uomo nel mondo vacilla, minacciata dalla perdita di senso e operabilità.

Tuttavia, De Martino non si arresta alla diagnosi: propone un ethos del trascendimento, una capacità di reinventare il mondo attraverso nuovi simboli, riti e narrazioni. La fine del mondo non è più soltanto una profezia escatologica o un evento cosmico da temere: è diventata una esperienza culturale e psicologica del presente.

Nel suo libro Wolfram Eilenberger esplora il pensiero di Adorno, Sontag, Foucault e Feyerabend per comprendere le fratture ideologiche che segnano il nostro tempo. La domanda che attraversa il testo è radicale: “Come si può tentare di pensare di nuovo dopo aver guardato nell’abisso?”.

Eilenberger si confronta con la crisi della filosofia stessa, chiedendosi se gli ideali dell’Illuminismo siano perduti per sempre e se la scienza, l’arte e la democrazia abbiano ancora qualcosa da promettere. In questo scenario, la filosofia non è più guida, ma spazio critico di resistenza, capace di offrire una via d’uscita attraverso il pensiero.

La nozione di speranza radicale, mutuata da Jonathan Lear, diventa centrale: è la speranza che resiste anche quando non si sa più cosa sperare. Lear la elabora studiando la crisi dei Crow, una tribù nativa americana che ha perso il proprio mondo simbolico.

La vita della tribù dei Corvi era praticamente scandita dalle frequenti guerre con le tribù nemiche dei Sioux, Cheyenne e Piedi Neri. Quando l’esercito degli Stati Uniti divenne un nemico comune dell’intera popolazione indiana, i Corvi si allearono proprio con quelli che vedevano come gli inevitabili vincitori: accettarono in questo modo la loro unica possibilità di sopravvivenza rinunciando a una vasta area del loro territorio.

Il capo dei Corvi, Plenty Coups (“abbondanza di incursioni”), poco prima di morire ricordò che quell’accordo fu una mossa giusta perché aveva assicurato che la più preziosa e sacra porzione delle loro terre restasse alla tribù, intatta e indisturbata, ma ammise anche che gli anni successivi a quell’accordo di pace furono anni senza eventi a cui si potesse dare un significato e concluse il suo discorso con una frase che divenne l’inizio del libro di Jonathan Lear sulla speranza radicale: «Dopo questo non è successo nulla».

Quella frase fu interpretata da Lear in modo paradigmatico: le azioni a cui non può essere attribuito alcun significato culturale non possono essere considerate avvenimenti.

Eilenberger riprende questa storia di Lear e la frase di Plenty Coups per provare a descrivere la condizione dell’uomo contemporaneo e la necessità di una speranza che non si fondi su contenuti, ma sulla possibilità stessa di sperare nel… nulla.

Questa diagnosi filosofica trova un insospettabile riscontro nell’antropologia di Ernesto De Martino, che nella sua opera postuma, La fine del mondo, descrive la crisi della presenza come rischio antropologico universale. Per De Martino, la “presenza” è la capacità dell’uomo di essere nel mondo con senso e operabilità. Quando questa capacità viene meno, si entra in una condizione di smarrimento culturale, che può assumere forme psicopatologiche o apocalittiche.

Per renderci partecipi di questo sentire, De Martino racconta che, durante una spedizione etnografica, un vecchio contadino di Marcellinara gli indicò la strada da seguire per arrivare in una certa località, accompagnandolo personalmente in macchina. Lungo il percorso,  non riuscendo più a vedere il campanile posto al centro del villaggio, il contadino cominciò a manifestare agitazione, disagio e angoscia per la progressiva scomparsa di quella immagine che evidentemente rappresentava lo sfondo della sua quotidianità e, per così dire, il centro del proprio mondo.

Da qui l’intuizione dell’antropologo sul termine apocalisse (“rivelazione”) e il suo stretto legame con la fine di un mondo anche personale inteso come l’insieme di eventi, rumori e immagini che conferiscono senso alla propria esistenza.

De Martino così distingue tra apocalissi culturali, cioè narrazioni simboliche che disciplinano la fine e aprono a un nuovo inizio, e apocalissi psicopatologiche, insorgenze non elaborate culturalmente, che portano alla paralisi, all’angoscia e alla disperazione.

La sua preoccupazione è che l’Occidente, dopo la Shoah e Hiroshima, sia affacciato su una “nuda e disperata catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e dell’operabile”.

In entrambi i racconti, quello del capo dei Crow e quello del contadino, la crisi non è solo esterna, ma interna al senso stesso dell’umano. La fine del mondo è la fine del mondo come lo conosciamo, come lo abitiamo, come lo comprendiamo.

Eilenberger e De Martino convergono nel riconoscere che la vera apocalisse è la perdita del senso, e che la risposta non può essere il silenzio, ma una forma di resistenza simbolica e culturale.

Se quindi la crisi è perdita del senso, la resistenza non può che consistere in forme di reinvenzione del senso. Eilenberger e De Martino propongono due figure emblematiche di questa resistenza: la speranza radicale e l’ethos del trascendimento.

La speranza radicale, secondo Jonathan Lear, è ciò che resta quando tutto ciò che dava senso alla vita è crollato. È la speranza che non si appoggia su oggetti o progetti, ma sulla possibilità stessa di continuare a sperare. Lear la descrive come una forma di apertura al futuro, anche quando non si sa più cosa attendere. Eilenberger la assume come chiave per leggere il nostro tempo: “La filosofia può ancora offrirci una via d’uscita per affrontare la crisi del nostro tempo”.

De Martino, dal canto suo, propone l’ethos del trascendimento come atteggiamento culturale e antropologico che consente all’uomo di superare la crisi della presenza. “Perché vi sia un mondo – scrive – occorre emergere da esso, non coincidere immediatamente con la situazione ma staccarsene”. Il trascendimento è la capacità di non coincidere con il caos, di separarsi, di reintegrare l’io attraverso riti, narrazioni, istituzioni. È ciò che lo sciamano compie nel mondo magico, ma anche ciò che la cultura può fare nel mondo moderno.

Entrambe le figure – speranza radicale ed ethos del trascendimento – indicano una possibilità di rinascita. Non si tratta di tornare indietro, ma di inventare nuovi modi di abitare il mondo, di costruire nuovi simboli, di riattivare la presenza. In questo senso, la filosofia e l’antropologia non sono discipline del passato, ma pratiche di resistenza e di futuro.

Se la crisi del presente è una crisi del senso, e se la resistenza si manifesta nella speranza radicale e nell’ethos del trascendimento, allora la rinascita non può che avvenire attraverso una reinvenzione simbolica del mondo. In questo processo, la cultura – intesa come insieme di pratiche, narrazioni, riti, linguaggi e istituzioni – assume un ruolo centrale: non come decorazione del reale, ma come condizione di possibilità dell’umano.

Per Ernesto De Martino, la cultura è ciò che protegge l’uomo dalla dissoluzione. È il dispositivo che consente di “tenere la presenza”, di non naufragare nel caos. Quando la cultura vacilla, l’individuo rischia di perdere la propria operabilità nel mondo. Ma proprio in questo rischio si apre la possibilità di trascendere la crisi, di inventare nuovi modi di essere  e… il rito, il mito, la parola, il gesto: tutto concorre a ricostruire la presenza.

Questa visione dialoga con la proposta di Wolfram Eilenberger, che vede nella filosofia non una disciplina astratta, ma una pratica di resistenza simbolica. La filosofia, come la cultura, non offre soluzioni immediate, ma “spazi” di pensiero in cui il senso può essere riattivato. La speranza radicale, in questo contesto, non è una fuga dalla realtà, ma una forma di apertura al possibile, una disponibilità a reinventare il mondo anche nel vuoto. “La filosofia non può salvare il mondo, ma può salvare il pensiero” – sembra suggerire Eilenberger – e salvare il pensiero significa salvare la possibilità di senso.

La rinascita simbolica, dunque, non è un ritorno al passato, ma una reinvenzione del presente. È ciò che accade quando, nel cuore della crisi, l’uomo riesce a dire “ancora”, a compiere un gesto, a pronunciare una parola, a immaginare un futuro. È ciò che De Martino vede nel rito magico, ma anche nella poesia, nella musica, nella narrazione. Ed è ciò che Eilenberger intravede nella filosofia come pratica di apertura.

In questo senso, la fine del mondo (e la rivelazione) non è mai definitiva. È una soglia, un passaggio, una possibilità. E la cultura – come spazio simbolico condiviso – è ciò che consente di attraversare questa soglia senza perdersi. La speranza radicale e l’ethos del trascendimento non sono solo risposte alla crisi: sono forme di rinascita, atti di fiducia nel potere umano di reinventare il mondo.

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/flyingraven-39341012/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=8795874″>FlyingRaven</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=8795874″>Pixabay</a>

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Giuseppe Ferrara

Giuseppe Ferrara – Nato a Napoli. Cresciuto a Potenza fino alla maturità Classica presso il Liceo-Ginnasio Q.O. Flacco. Laureato in Fisica all’Università di Salerno. Dal 1990 vive e lavora a Ferrara, dove collabora a CDS Cultura . Autore di cinque raccolte poetiche; è presente in diverse antologie. In rete è possibile trovare e leggere alcune sue poesie e commenti su altri poeti e autori. Tiene un blog “Il Post delle fragole”: https://thestrawberrypost.blogspot.com/

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