“Lezioni dalle rovine”
(Io l’ho letto tre volte)
Tempo di lettura: 7 minuti
Lezioni dalle rovine è un libro di 150 pagine. La durata della lettura non si può stabilire, ma certo interromperla è arduo: questo è un libro che, quando inizi a leggerlo, affonda e compie un’opera dentro di noi.
In copertina c’è una foto dell’autore da giovane, ritratto nel parcheggio di un supermercato: Davide Bregola (Vedi anche su Periscopio), nativo di Bondeno come mia madre. L’editore è Avagliano da Roma, il libro è uscito quattro mesi fa. Nell’aletta posteriore è scritto che si tratta di un memoir, e poi “Conversazioni con Vitaliano Trevisan, Umberto Bellintani, Ivano Ferrari, Marosia Castaldi”.
Io, questo libro lo ho letto tre volte. La prima senza quasi fermarmi. La seconda ho fatto segni a matita, la terza ho colorato attorno ai segni. Poi ci ho dormito su. Al risveglio ero certa che Trevisan, Bellintani, Ferrari e Castaldi, e il narratore che di loro scrive – il narratore è sempre un narratore, un’entità narrante, in questo caso è l’autore Davide Bregola, sì, ma anche una sua voce altra – insomma, ciò che sognai è che tutti e cinque avevano scritto e pubblicato una plaquette.
Una plaquette, cioè uno di quei libri di poesia che combattono come ogni libro con lo spazio e il tempo, la composizione, la qualità di carta e caratteri – i costi, insomma – ma in più con il periglio delle poche pagine, della legatura, del discorso poetico. E queste cinque plaquettes – formato lungo, copertina in bristol avorio – stavano dentro il sogno, dentro un sacchetto di tela bianca con la scritta Fosse Venturi Stagionatura Formaggi, Sogliano al Rubicone (FC): è la sacca in cui tengo il mouse quando non lo attacco al portatile, quando non scrivo. Perché io scrivo a mano, oppure mi serve un mouse – il touchpad mi confonde e non lo tocco.
Touchpad, portatile, plaquette – sembreranno roba da cremin, da ragazzi cresciuti a Nutella e skipass, da fighetti, insomma? E leggere tre volte lo stesso libro, di questi tempi, per una zdòra della mia età, sembrerà un privilegio? E avere avuto in regalo un formaggio di fossa? Non cercherò argomentazioni, a favore né contro. Non voglio argomentare. Voglio dire, o più spesso non dire – argomentare, questa volta, no.
Dopo la terza volta che ho letto Lezioni dalle rovine, non ero più sicura che si trattasse di un memoir, e nemmeno di conversazioni. Poi ho sognato le plaquettes, nella sacca di Fosse Venturi, e ora mi sta bene che il libro sia un memoir e che si tratti di conversazioni. Non saprei argomentare su questo passaggio – prima del sogno, dopo il sogno. Lo sento, non lo so.
Il sottotitolo del libro è stampato tra parentesi (Leggere, scrivere, vivere).
E in corsivo e tra parentesi sono i titoli dei quattro capitoli, ciascuno dedicato a uno dei quattro autori. Rispettivamente
(resoconto)
(elaborazione da un’immagine)
(nostri ragni)
(cavi)
Sulla soglia dei quattro capitoli stanno quattro citazioni in exergo, quattro frammenti. Rispettivamente Albert Camus, Iosif Brodskij, Cees Nooteboom e Franz Kafka – un frammento ciascuno. (Solo a me, che sono ferrarese fuori sede, vengono in mente le statue dei quattro santi sul ponte di San Giorgio?)
Un capitolo dopo l’altro appaiono, nel libro, il narratore e attore e regista Vitaliano Trevisan, vicentino; il poeta e scultore e applicato di segreteria Umberto Bellintani, e il suo paese – Gorgo, San Benedetto Po, un nome che è già topografia; il poeta Ivano Ferrari, prima macellaio poi bibliotecario, e custode, da Mantova; la narratrice, pittrice e scultrice, e insegnante di scrittura, Marosia Castaldi da Napoli.
Con loro, il narratore intesse conversazioni.
Cioè: di loro racconta. Dei suoi incontri con loro, racconta. Delle loro scritture, racconta. Con loro parla, a volte, nel libro.
Trevisan e la sua ringhiosa rettitudine, certe presentazioni di suoi libri in città e paesi, asprezze e scazzi, morose, il cane Dean Martin, scritture e rovine;
Berto Bellintani conosciuto in un’antologia, poi in un bar di paese a giocare a carte, ma ancor prima al vernissage di uno scultore di land art, in campagna, tra Mantova e Cremona;
Ivano Ferrari, anche lui conosciuto in antologia, anche lui mantovano, anche lui in disparte, “infastidito da qualsiasi etichetta, norma o cerimoniale”;
Marosia Castaldi e i suoi romanzi, a partire dal libro che lo stesso Bregola le chiese, poi curò e pubblicò per un piccolo editore indipendente, almeno quindici anni fa, e i rari incontri tra loro due, autrice e responsabile di collana, nel ricordo che si sfoca e sfuma.
Nessuno dei quattro capitoli è solo conversazione, incontro, racconto, con un autore o un’autrice. Eppure tutto il libro – centocinquanta pagine – è tramato di racconti, incontri e conversazioni.
C’è infatti il racconto – in frammenti, legati però con un filo invisibile – della vita del narratore: un adolescente che scopre un poeta in un’antologia – un poeta proletario, un poeta della bassa mantovana come lui; che va a scuola in treno, va in biblioteca, poi pensa a quale facoltà iscriversi e a come rinviare il servizio militare; lavora come manutentore elettromeccanico stagionale in una ferrovia locale, lavora nella filiale locale – prossima alla dismissione – di un’industria casearia, in un’agenzia editoriale di provincia, come venditore di libri, come organizzatore di eventi culturali, come responsabile di collana.
Da autore si fissa su temi come verità e felicità, poi si perde; scrive, non scrive, diventa padre, poi scrive questo libro di cui sto dicendo, Lezioni dalle rovine.
C’è la pianura e c’è il Po, in questo libro, e gente che gravita sull’argine, c’è Ferrara città ducale e surreale (e la gente che vive assieme al narratore e attorno a lui, pagine davvero indimenticabili), Mantova citt e c’è la terra in sé, la terra come campagne e paesi, linee ferroviarie e fiumi, canali e strade – la terra lontana dalle città.à ducale e i suoi laghi, il Mincio, e Verona e Cremona e Pesaro…
E ci sono cisterne e binari, officine e valvole e pompe, compagni di lavoro e capireparto, attrezzi e vestiti; e uffici e magazzini e librerie, utilitarie, furgoni e vagoni. E libri. Dagli autori narrati – tre autori e un’autrice, tutti e quattro già morti da anni – alle vite di amici e colleghi e alla lettura, alla scrittura, tutto esonda in tutto. La vita e la lettura e la scrittura, come dice il sottotitolo tra parentesi, stanno assieme. Certo. Mai sono state separate. C’è chi le intende separate, affari suoi.
Poi c’è un capitolo finale: che si intitola
Capitolo fantasma
(la fine)
e qui il narratore si avvicina più che mai all’autore, infatti parla con il tu a Marosia Castaldi: le racconta di sé stesso a cinquant’anni, della sua bambina piccola, della sua vita ora, e dice a Marosia quanto sono importanti i libri di lei, di Marosia. Lei è morta già da anni, ma noi a chi parliamo di noi stessi, della nostra vita? E dei libri importanti, di questa cosa misteriosa che è la lettura, cioè della vita?
E cosa fanno i poeti se non morire e tornare di qua a parlare, come scrisse Bassani?
E infatti il narratore non si ferma, e nemmeno “passa oltre”: va dentro, più indietro e più oltre, ma dentro un’oltranza. Dice a Marosia di quei romanzi straordinari, i romanzi di Marosia difficili da trovare e impossibili da dimenticare, poi le racconta del suo proprio lavoro: non il lavoro letterario, però, ma il lavoro in una struttura psichiatrica. Racconta delle persone che stanno là, al diurno e in reparto. Poi diventa le loro voci, perché è un narratore. E un autore.
Stupefacente in questo libro è quante cose e persone – oltre a libri, titoli e autori e voci – quanti abiti e tute e scarpe, storie di sesso e compagnie, di lavori e di incontri, di amarezza e allegria, possano stare in centocinquanta pagine.
E senza mai perdere il filo. E stupefacente è una qualità del testo che è assieme forma e sostanza – che forse poi capirò meglio, ma ora non so dire che così: non c’è mai autocompiacimento, non sento mai vanità in questo raccontare, in questa voce, in questo libro. C’è leggere, c’è scrivere e c’è vivere. Tra parentesi. C’è aver messo in parentesi tante cose e aver posto attenzione ad altre solo, ma attenzione profonda e spietata. C’è una cosa che mi riempie di stupore: quando il narratore passa al tu, all’improvviso, e parla con uno dei quattro e anche con me, con noi, con chi sta leggendo.
E c’è una cosa che mi fa saltare sulla sedia, ed è quando di colpo, all’improvviso, il narratore dice il suo mondo interno: una riga sopra diceva di un tizio sulla spiaggia del Po, di cefali e canoe; poi va a capo, e all’improvviso ecco “una sensazione di espansione totale”, “un sentimento oceanico”.
Ho messo tra virgolette questi frammenti, i ritagli della sua voce. L’immensità del Po la conosco anch’io, e riconosco quando viene menzionata a titolo strumentale, o retorico, per far tornare i conti del racconto. E grazie a quella visione, quella della pianura e del fiume largo, riconosco quando la scrittura è asservita all’ego, quando gli eventi vengono stirati a modo di tener tutto assieme con un fine, e i personaggi e gli incontri fatti servi dell’io narrante.
E in queste 150 pagine, mai e poi mai ho visto accadere queste cose: perché qui nulla è strumentale a nulla, e tutto sta assieme nella luce, tra le rovine, su una spiaggia fluviale.
E perché due volte, nelle centocinquanta pagine di queste Lezioni, salta fuori che il narratore si era messo, anni fa, a leggere l’Imitazione di Cristo come un manuale di scrittura. Non di scrittura narrativa, non di scrittura creativa. Di scrittura, dice, e basta. (Il corsivo qui è mio. E tra parentesi, lo ho fatto anche io).
In copertina Fiume Po vicino a Ferrara, Foto di Paolo Panni
Per leggere i contributi di Silvia Tebaldi su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

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