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da BERLINO – Avanzi. Non quelli dal piatto e tantomeno (ahimè) quelli dei tempi gloriosi di Corrado Guzzanti. Bensì ciò che ‘avanza’, ovvero, ciò che (ci) resta dalla storia e dal passato. In altri termini: rovine, reliquie, fossili e resti dal passato. Di questo ha parlato sostanzialmente Ann Stoler ospite al berlinese Institute for Cultural Inquiry, solitamente docente di Antropologia e Storia alla nuovissima New School for Social Research di New York.

La sua conferenza è partita da una differenza sottile tra il fatto di concepire un avanzo come ciò che “è avanzato” nel corso del processo storico e il fatto di concepirlo come ciò che effettivamente “ci continua a restare” ovvero ciò che è coinvolto in un processo continuo di deperimento e decadimento. Il primo è poco importante per il presente: è una sorta di resto antiquato del passato che probabilmente non ha più alcuna importanza, a parte appunto il fatto di essere ciò che è: un avanzo. Per definizione qualcosa che è in più, poco importante, secondario, superfluo, nel senso preciso che si tratta di qualcosa che rimane rispetto all’intero che è andato in frantumi. Per cui insomma si può passare ad altro, andare avanti.
Ma se concepiamo l’avanzo come qualcosa che resta ma che continua a decadere, ecco che le cose si fanno più difficili. Non è possibile sbarazzarsene semplicemente sostenendo che si tratti di qualcosa di antiquato, sopravvissuto dal passato. Infatti, si tratta di un atto che continua ad accadere anche ora e che coinvolge la realtà stessa che va essenzialmente in rovina.

Se applichiamo queste osservazioni forse un po’ astruse alla realtà sociale contemporanea, come suggerisce Ann Stoler, possiamo trarre da questa idea un particolare insegnamento sul rapporto tra gli imperi coloniali passati (residui, in ogni senso del termine) e le loro colonie passate (residue, in ogni senso del termine). Si tratta di un rapporto che, ben investigato, potrebbe gettare miglior luce sui recenti eventi medio-orientali, prossimi a coinvolgere anche il nostro mediterraneo. Qual è, infatti, il rapporto che si è stabilito e continua sempre a stabilirsi tra le ex colonie mediorientali e i loro ex padroni europei? Non si tratta semplicemente di una guerra, che alcuni vagheggiano come una incipiente “guerra civile europea” (secondo il senso dato dal controverso giurista Carl Schmitt) bensì di qualcosa più sottile, ovvero di un confronto agonistico che si manifesta come un continuo rapporto di attrazione e repulsione tra le ex colonie e la vecchia Europa: combattere la vecchia Europa che è avanzata dalla sua (in)gloriosa epoca coloniale, e in un qualche modo farsi riconoscere dall’antica padrona, cioè farsi conoscere come pericolo, minaccia, o vendetta. Ma certo non restarle indifferenti.
Cos’è quindi questa strana forma di colonialismo che continua a legarli insieme? Non è una forma di colonialismo morbido perché non esistono di fatto più colonie né di diritto né di fatto, ammesso che non si voglia confondere gli effetti (evidenti, eclatanti) di una guerra di predominio economico del Primo mondo verso il Terzo mondo. In verità, così sembra dire Ann Stoler, il colonialismo è stato e continua ad essere qualcosa di molto più sottile e potente del semplice predominio economico.

Un esempio molto eloquente portato da Stoler è quello denunciato recentemente da una organizzazione non profit: il progetto di archiviazione di 10.000 documenti dell’amministrazione palestinese senza che sia ancora stato effettivamente istituito uno Stato palestinese. Qual è dunque il senso di istituire un archivio (una memoria) per ciò che non è ancora stato fondato? Personalmente azzarderei una risposta: quello di costruire una memoria ufficiale, una tradizione da cui costruire prossimamente uno Stato. Insomma una versione moderna del mito antico. Così come, avrebbe potuto aggiungere Ann Stoler, tanti altri Stati (non solo europei) abbisognano dei loro miti fondatori. Non sempre particolarmente edificanti o positivi.

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Federico Dal Bo

È giornalista pubblicista e traduttore, dottore di ricerca in Ebraistica, dottore di ricerca in Scienza della traduzione, residente a Berlino

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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