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Il Sud Sudan è uno dei paesi più giovani al mondo, uno Stato indipendente, dal luglio 2011, dopo una guerra civile devastante e distruttiva durata oltre 20 anni. Il Paese è stato talmente impattato da tali eventi, a livello economico e di sviluppo umano, che il 50,6% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Mancano infrastrutture, vi sono i più alti tassi di mortalità materna e di analfabetismo femminile al mondo. Carestia e crisi idrica sono altri componenti di questo terribile scenario. In questo scenario, operano alcuni operatori umanitari internazionali e italiani che cercano di portare soccorso alle popolazioni. Abbiamo voluto parlare con uno di questi “eroi moderni”, Anna Sambo, responsabile dei progetti della Fondazione Avsi nel Paese [vedi]. Conosco Anna da tempo e, considerati il suo carattere e la sua forza di volontà, potevo solo immaginare di ritrovarla in posti come questo.

Anna, ci conosciamo dai tempi di progetti sociali portati avanti nell’ambito di un’attività d’impresa, e lo spirito che caratterizzava il tuo impegno di allora non sarà sicuramente cambiato. Cosa ti ha portato a cambiare vita, e soprattutto a scegliere il Sud Sudan? Perché proprio questa realtà?

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Anna Sambo, responsabile dei progetti della Fondazione Avsi in Sud Sudan

E’ stato il Sud Sudan a entrare nella mia vita, per primo, quattro anni fa, con una visita tra Uganda e Sud Sudan. Ho seguito un invito e ricordo il passaggio del confine tra Uganda e Sud Sudan: alle pendici delle montagne, i villaggi, come li avevo sempre visti e immaginati nei racconti degli antropologi quando studiavo all’Università di Milano. Ricordo la commozione. E da lì si è rafforzato il desiderio di “stare” in Africa. Poi è arrivata un’offerta di lavoro. E dire di sì non è stato facile. Più volte ho tenuto in considerazione quello che dicevano gli altri, che era una follia: lasciare un impiego a tempo indeterminato nella più grande azienda italiana, in tempo di crisi. Da matti.
Alla fine, era Natale, ho deciso da sola e per me stessa. Non tanto per dei valori specifici o per un’idea di voler fare un lavoro che per il pensiero comune è “nobile” (aiutare i poveri…) ma per una questione di dignità personale: sono cresciuta e sono stata educata in un ambiente in cui il lavoro è parte integrante della vita e della soddisfazione personale. Anzi, ho sempre visto miei genitori divertirsi tanto nel lavoro. Volevo trovare uno spazio per me, per imparare cose nuove e conoscermi meglio. Poi mi hanno sempre insegnato che dalla fatica nasce la felicità. E devo dire che qui, in Sud Sudan, provo questo sulla mia pelle. Diciamo che qui questo concetto non ha proprio nulla di metaforico. Qui si prova la vera fatica fisica, la precarietà di tutto. E quando accade qualcosa di bello, provi una piena felicità piena. Si tratta di letizia, come mi ha scritto una volta mio papà in una delle prime email che ho mandato da qui, quasi un anno e mezzo fa. Mi scrisse: che bello sentirti così lieta! E tuttora è ancora così. Le fatiche sono aumentate, perché’ è sbiadito il semplice entusiasmo e si è fatta sempre più strada la consapevolezza. Questa realtà in qualche modo mi ha scelto. E forse proprio qui, nell’Africa più difficile, dovevo capitare, per capire meglio cosa conta davvero nella mia vita (e non solo nella vita in generale) e su cosa poggio io, Anna.

Ha forse a che fare anche con il “mal d’Africa”???

Tutti dicono che il mal d’Africa esiste davvero. Quello che so è che ogni volta che parto da qui, mi prende la nostalgia. Mi prende un senso di spaesamento ad allontanarmi da qui. E il pensiero consolatorio che faccio sempre è che sono contenta di andare ma, allo stesso tempo, di sapere che qui ci torno. Vado via, ma torno subito, mi viene da dire quando decollo da Juba.

In Sud Sudan rappresenti Avsi, che, nel paese, è molto attiva tanto nel settore dell’educazione che dell’assistenza medica a bambini e donne. Ci descriveresti alcuni dei maggiori progetti che portate avanti ora?

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Clinica St. Teresa a Isohe, la sala operatoria è uno degli ultimi interventi di Avsi

Il settore educativo e sanitario sono quelli su cui siamo impegnati di più, anche se stiamo terminando un grosso progetto di riabilitazione del sistema idrico della città di Torit, finanziato dall’Unchr. Mi è capitato, proprio in questi ultimi mesi, di fare più attenzione al progetto sanitario che portiamo avanti, da un anno, nella contea di Ikotos, finanziato da Health pooled fund (progetto alimentato dai fondi del governi inglese, canadese, australiano e dell’Unione europea). Dalla nostra base di Isohe (tra le montagne dell’Eastern Equatoria, uno dei 10 Stati che compongono il Sud Sudan) supportiamo il dipartimento di salute della contea di Ikotos. Gli obiettivi del progetto sono il supporto al lavoro della Contea (con attività di capacity building) e la fornitura di servizi sanitari di base (vaccinazioni, distribuzione di medicine, attività di cura prenatale), con un’attenzione particolare a bambini e donne incinte. Sono stata tanto nei villaggi, in quest’ultimo periodo (di solito sto molto a Juba, in ufficio) e mi sono resa conto della situazione disgraziata in cui si trovano le persone e del bisogno reale di ciò che facciamo. Ora posso dirlo, al di fuori di luoghi comuni e ideologie. Ora lo vedo proprio. L’altro grande progetto è quello finanziato dal Ministero affari esteri italiano: è un progetto triennale, iniziato a maggio 2014, che fa seguito ad altri due progetti con lo stesso donatore susseguitisi nel 2012 e 2013. E’ un progetto educativo, sempre nello stato dell’Eastern Equatoria. Negli anni precedenti, AVSI ha lavorato alla riabilitazione di scuole. Con questo nuovo progetto ci concentriamo maggiormente sulla formazione degli insegnanti di scuole elementari e medie e sul supporto agli studenti della School of education del St. Marys College di Juba, con borse di studio. La scuola è supportata da Avsi e forma – come Università – gli insegnanti delle scuole elementari. Si tratta di un intervento importante ed è una grossa sfida oltre che un rischio: è una visione di sviluppo per un paese in piena emergenza. In un momento in cui tutti puntano sulla distribuzione di cibo e di beni di prima necessità, Avsi prova a investire nello sviluppo, contando su una presenza costante nel paese. Lavorare nell’educazione significa fidarsi del fatto che le persone abbiano un’immagine del loro futuro e che non pensino solo ad arrivare a fine giornata vivi. Significa fidarsi del fatto che c’è qualcosa di più del giorno per giorno. Abbiamo, poi, dei progetti di Education in Emergency, dove lavoriamo con bambini, genitori e insegnanti, attraverso un accompagnamento psicosociale. Inizieremo presto un progetto simile qui a Juba, in uno dei campi degli sfollati interni (Internally displaced people), quelli che sono scappati dai combattimenti e dalle “persecuzioni”, dallo scoppio della guerra lo scorso dicembre. Le persone nei campi rifugiati hanno paura a uscire, vivono nel terrore di essere nuovamente in pericolo.

Se dovessi spiegare, in sintesi, a un lettore, magari anche a un giovane lettore, cosa succede in Sud Sudan, come glielo spiegheresti? Sai che qui in Italia si parla poco di realtà simili…

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Primary health care unit di Mangalla, donne e bambini in attesa di una visita

Quando sono tornata qui a gennaio, dopo l’evacuazione dello scorso dicembre, la percezione era di trovarsi in un luogo instabile. La percezione era, poi, che la gente pensasse solo a trovare il modo per andare via. O comunque, che ancora più del solito la gente fosse in grado solo di pensare all’oggi. Nessuna prospettiva per nessuno. E da lì la domanda del perché stare qui se quelli che stanno qui, per primi, se ne vogliono andare. Tutto ti fa pensare che non può che andare male. Per tutti.
Il Sud Sudan è lo stato più giovane del mondo, nato il 9 luglio del 2011, dopo 20 anni di guerra con il nord. Prima era un unico Sudan. I sud sudanesi, quando sono arrivata, facevano una vita che mi pareva normale. Sapevamo che lo stato era nuovo, uscito dalla guerra, e che, dunque, poteva essere molto instabile. A luglio dell’anno scorso, proprio in questo periodo, il Governo ha mandato via alcuni rappresentanti della forza di opposizione, che, fino ad allora, era stata integrata nel governo anche come segno di una volontà di pacificazione tra due fazioni diverse, appartenenti alle due diverse etnie principali i Nuer e i Dinka.
Il presidente Salva Kir, guerriero, soldato e di etnia Dinka, ha cominciato a spargere semi della discordia. Già allora si temeva la guerra. Ci avevano detto di essere pronti all’ibernazione (stare in casa o nel compound con acqua e cibo sufficienti, un telefono satellitare carico e funzionante) o all’evacuazione. Poi non è successo nulla e abbiamo ripreso la vita normale, seppur faticosa, ma credendo di stare in pace. La notte tra il 15 e il 16 dicembre, hanno iniziato a combattere. Mi stupisco perché, quando parlo di quel momento, a fatica riesco a dire “quando è scoppiata la guerra” perché quello che viviamo da qui non è una guerra. Ma in realtà la guerra c’è. E’ un conflitto a bassa intensità, che ogni tanto ha dei picchi in cui l’intensità aumenta (come il 5 marzo scorso, quando abbiamo sentito lo stesso rumore di combattimenti sentito quella notte) e ti senti ripiombato nel nulla. Nei tre stati al nord del paese (Unity, Jonglei e Upper Nile) la guerra continua. In questi giorni si parla, più di prima, di rischio carestia per 4 milioni di persone. La gente è scappata, non ha un posto dove stare e non ha campi che producano mais o sorgo. Non hanno potuto coltivare nel periodo dell’anno in cui è possibile farlo. Sono arrivate le piogge e non si coltiva. Non porterebbe frutto. E il cibo non può raggiungere quelle zone del nord. Il commercio non funziona, i trasporti sono quasi impossibili, per le piogge e per la guerra. Gli aiuti umanitari non arrivano. Ci sono grandi proclami, ma gli aiuti arrivano solo grazie a qualcuno che ha il coraggio di percorrere strade di fango e di distribuire il cibo a piedi.
Qui ci sono guerra e povertà. Ogni tanto l’informazione ne parla, ma poi passa il momento. Le persone, tuttavia, soffrono e muoiono, per guerra, fame e malattie. In tutto questo ci siamo anche noi, che facciamo di tutto per portare avanti una vita normale, soprattutto perché vorremmo lo facessero anche i sud sudanesi. E lo facciamo perché vogliamo stare qui, con una presenza vera, che vada aldilà di una guerra che cancella ogni pensiero sul futuro. Vogliamo che la vita quotidiana che sia degna di questo nome.

Ti ho visto in televisione quando, a causa della nuova guerra esplosa tra le diverse fazioni armate, sei stata evacuata con un ponte aereo organizzato dall’Unità di crisi della Farnesina – a gennaio, ma correggimi se sbaglio. Immagino quanto tu fossi tesa e provata, ma il tuo sorriso era lì… Inutile forse domandarti “ma come fai”?
L’aereo ci ha portati prima a Gibuti e poi in Italia, il 20 di dicembre 2013. E’ stato un momento di cui parliamo spesso. Tante amicizie sono nate in quell’occasione. Quando sono salita sul C130 della Farnesina ho pianto finalmente, dopo giorni di tensione. Sono stati solo 3 giorni, ma di continue telefonate di coordinamento con i colleghi delle altre basi (che sono usciti dal Sud Sudan via terra, andando in Uganda e da lì in volo fino in Italia) e con la sede in Italia. Non mi sono mai sentita sola. Ho scoperto che gli spari di notte mi provocavano una reazione di spavento, fisica. Ero stanca, dormivo poco. Ma non mi sono mai sentita sola o troppo spaventata. Forse il ruolo, accompagnato dalla presenza degli amici e colleghi. Mi ricordo la telefonata via skype con papà la sera prima dell’evacuazione. Mi chiedeva di raccontargli cosa stava succedendo. Con i miei genitori è stata una condivisione tra adulti, una parte del “bello” di quel momento.
Mi piace questa domanda “come fai?”. Ogni tanto mi fermo a guardarmi. E vedo tutte le fatiche, che sono fatiche diverse da quelle cui ero abituata. La prima risposta è che tante volte ho pensato “io non ce la faccio” e poi c’era sempre qualcuno che mi faceva compagnia. Qualcuno che mi faceva sentire parte della realtà. Come faccio… semplicemente mi succede che riesco ad accorgermi del germoglio verde sul tronco che sembra secco. Questa cosa non me la do da sola. Non riesco a convincermi di essere felice. Non ci sono mai riuscita. Ho sempre voluto una vera felicità, una vera pienezza. E qui, con tutta questa fatica, sarebbe impossibile riuscire a “raccontarmela”. Dunque, è sempre la realtà che mi tira fuori dallo sconforto dalla tristezza, dalla fatica e dalla solitudine. Ecco… sono felice di farcela, perché vedo quanto questo sguardo mi faccia essere lieta e adulta nella migliore delle sue accezioni. Le relazioni, gli incontri, le amicizie e il desiderio inarrestabile – e sempre più forte – della felicità.

Ho letto la tua intervista su Famiglia Cristiana dello scorso febbraio, nei giorni in cui erano stati sospesi i negoziati di pace tra ribelli e Governo, previsti ad Addis Abeba, in Etiopia, nello stesso mese. Nelle tue parole si leggeva comunque una ferma volontà a proseguire in una ricerca. Quella del Bene comune? Ma come si fa a crederlo in situazioni simili?
Sì, una ricerca di cui sono intrinsecamente fatta, forse perché l’ho vista in tante persone che ho incontrato durante la mia vita, nelle amicizie e sul lavoro. Una ricerca che ritrovo anche in te. Quella della compiutezza, della letizia. Cerco la felicità nel quotidiano. E, paradossalmente, è qui che lo sto imparando. E quello che imparo qui mi serve per amare di più il luogo da cui provengo. Non è una questione di credere, ma di cercare ogni giorno quel “Bene comune” di cui parli. Che parte dal mio bene. Il mio desiderio più grande è quello di essere felice in ogni istante (chi non lo vorrebbe?). E forse la fatica che si vive qui rende più intensa ed evidente le bellezza dell’attimo, degli incontri, l’importanza di un messaggio degli amici dall’Italia. Ogni tanto ci sono cose, situazioni, che mi fanno sobbalzare il cuore. E allora penso che è proprio in quel tuffo al cuore che trovo il Bene. E basta solo stare a guardare, perché accade ogni giorno, anche qui.

Il tuo “Diario dal Sud Sudan” su Sussidiario [leggi] prosegue con cadenza quasi settimanale, da febbraio. Ci parli della bellezza che non c’è (o che c’è?)?
La bellezza che non c’è la trovo nei bambini sporchi e che se ne vanno in giro a piedi scalzi nel fango, o che si lavano i denti nel canale di scolo dietro il nostro ufficio. Nel fatto che gli adulti intorno a loro non se ne accorgono. La bellezza che non c’è l’ho vista nello sguardo perso e nelle botte prese da uno dei nostri autisti finito in carcere, l’ho vista nella lotta finita con la morte a forza di botte di Sebit, un altro nostro autista. Con la storia di Sebit ho iniziato a scrivere. E ricordo quel periodo (gennaio) come veramente intenso e in qualche modo “bello” nonostante il dramma di ciò che succedeva – è stato quando siamo rientrati in Sud Sudan dopo l’evacuazione di dicembre. La bellezza è in tutto ciò che mi sorprende. Una nuova collega con uno sguardo aperto alla realtà, i racconti di bellezza da chi non è mai riuscito a vederci nulla di bello qui, le risate con i colleghi. E il silenzio quando succede qualcosa di terribile. Silenzi pieni. La bellezza è nella sorpresa di trovare il bello, senza raccontarsela. La bellezza s’impone, è evidente, succede. Non sono io che la faccio, ma è lei che mi viene incontro. La bellezza delle lettere degli amici (poche, ma quando arrivano è una festa). E quella della condivisione.

Da “persona che s’informa sui fatti”, ma anche da amica, ti seguo e siamo anche in contatto sui social network. Ti vedo sempre attiva, nei limiti, immagino, dei tuoi impegni. Noto con piacere che, fra tutte le difficoltà, oltre a trovare il tempo di scrivere – e anche bene, lasciamelo dire – fotografi molto. Com’è nata questa tua passione per la fotografia e cosa preferisci far entrare nei tuoi scatti? Ossia cosa t’ispira veramente?

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La comunità di Lobira presso Il Primary health care center

Ci pensavo in questi giorni. La settimana scorsa ero sul terreno, tra le montagne di Isohe, per una visita ai nostri progetti sanitari. Ho fatto fotografie che a rivederle mi commuovono. Sembra quasi che non le abbia fatte io, per la reazione che mi provocano. Ci tengo a farle, a sistemarle quando torno a casa, a condividerle con i colleghi qui e con gli amici. Ci penso ogni volta, se valga la pena o no renderle “pubbliche” attraverso i social network. Poi penso che sì. Perché tenere per me il mondo che vedo? Dunque, fotografare mi piace per rivedere meglio quello che forse a volte preferisco vedere di sfuggita. Alcune cose preferisci non guardarle. Almeno, non direttamente. La fotografia da una parte si “mette in mezzo” tra me e il disastro, lo sporco, la tristezza, la povertà, ma anche tra me e la bellezza e l’umano. Si mette in mezzo e allo stesso tempo è ciò che mi fa guardare meglio le cose, le persone e i posti che amo, qui. Quello che m’ispira veramente, che ho voglia di fotografare, sono i dettagli e le persone. I volti, ma allo stesso tempo le “composizioni” che riesco a vedere “come in fotografia” quando vado in giro. Mi piace fotografare da dietro persone che parlano, godendo della bellezza di quello scambio. Mi piacciono i volti rugosi dei vecchi sud sudanesi, che pur avendo 50 o 60 anni ne dimostrano un centinaio. Mi piace perché le loro fotografie sono quasi dei dipinti. Mi piace sempre tanto fotografare i bambini, perché ti corrono incontro. E appena mostri la foto che hai fatto, ne arrivano altrettanti a farsi fotografare. La fotografia mi avvicina a chi mi sta attorno e, allo stesso tempo, mi permette di guardare le cose dalla giusta distanza. Quella che mi commuove. La fotografia mi è sempre piaciuta, perché posso fermare la bellezza dell’istante, che rincorro fotografando.

Se ti dovessi, infine, definire con tre parole e tre aggettivi, quali useresti?

Lacrime, inquietudine, corsa; sensibile, insicura, sorridente.

Progetti, dopo il Sud Sudan?
Non si placa il mio desiderio di imparare e conoscere. Non ho idea di come questo si realizzerà, ma i criteri saranno quelli di tenere seriamente in considerazione tutto quello che so fare e che ho imparato nel lavoro (non solo qui, ma anche quando lavoravamo insieme), di considerare seriamente e con cura le mie debolezze e le mie paure, di continuare a seguire ciò che mi fa dire ogni giorno di stare spendendo la vita per la mia felicità (che di conseguenza diventa anche quella degli altri). Non voglio fermarmi. Sulle Dolomiti ho imparato il bello del cammino. Vorrei continuare a camminare.

E noi vorremmo camminare con te, ti seguiremo…

Foto per cortese concessione di Anna Sambo

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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