PARIGI, L’AFRICANA
L’atmosfera di un luogo può nascere anche dall’intreccio di situazioni dissonanti, e solo Erik Satie può consentirci di interiorizzare un luogo spazialmente contradditorio come Sébastopol a Parigi. Però il tempo deve essere umido, all’imbrunire, con un via vai intenso di pedoni e mezzi. Se il viadotto della metropolitana separa nettamente il grigio superiore dei palazzi dalle luci mutevoli dei negozi, dei semafori e delle auto sulla strada, la linea luminosa della metro, che regolarmente passa sul viadotto, rende dinamico questo paesaggio futurista.
Parigi prima di essere una città fisica è un’atmosfera. All’angolo tra la rue Pierre Lescout e Rue de la Grande Truanderie due vecchi bistrot sono abbastanza vuoti, nel tavolino al mio fianco due giovani intellettuali parlano di politica americana e terrorismo mentre dei grossi passeri saltellano da un tavolino all’altro in cerca di cibo. Parigi non ha mai smesso di essere al centro delle attenzioni di filosofi, artisti, architetti, scrittori che ne hanno descritto forme, costumi, mali e disfunzioni proponendo spesso delle soluzioni per la sua riforma e la sua riorganizzazione. Ma, ci rammenta Giovanni Macchia, l’inizio della poesia di Parigi si deve a coloro che la città non la amano, anzi che la detestano per ragioni morali, sociali ed estetiche.
Questa metropoli è un grande mosaico di culture legate ai processi di immigrazione e decolonizzazione che ne hanno arricchito le modalità di comportamento e di vita quotidiana in contrasto con la forte identità architettonica «haussmaniana» che la città ha assunto con le trasformazioni ottocentesche. Le trasformazioni contemporanee della metropoli le possiamo collocare dentro un palinsesto che, come ricordava Italo Calvino, rende Parigi una sorta di enciclopedia storico-urbanistica-sociale che possiamo sfogliare, attraversare, leggere, vivere.
Tale diversità la riscontriamo aggirandoci nei quartieri a forte connotazione etnica, osservando le modalità di uso degli spazi pubblici, la varietà del commercio di prossimità, con gli orari degli esercizi commerciali, spesso legati alle differenti tradizioni religiose o culturali o ancora osservando l’utilizzo delle strade in quanto luoghi di coesione, di preghiera e di interscambio commerciale e culturale.
Il mercato di Barbès si svolge il mercoledì e il sabato sotto il cavalcavia del metrò. In realtà i mercati sono due: quello legale e quello irregolare. Nel secondo ognuno vende quello che ha, alle uscite del recinto della stazione mentre lungo il muro dell’ospedale parecchie donne e qualche uomo, vendono prodotti poveri da supermercato alternati a dolci zuccherosi e al pane algerino unto, saporito e speziato. Ci si muove a Barbès come ci si muoverebbe a Tunisi, Casablanca o Algeri. Stessi riti, identici rumori, merce informale lungo le strade che diventano uno spazio conteso da uomini e automobili. Risalendo il Boulevard de Barbès si giunge al marché de Chateau Rouge con i suoi prodotti alimentari e tessili tipicamente africani, i grandi pesci sui banchi mi portano immediatamente sui mercati atlantici senegalesi confermandomi che Parigi è la città più africana d’Europa.
Un geografo di Paris-Saint Denis, ad una cena, mi racconta che un mercante di origine algerina, che aveva sempre vissuto nel quartiere «africano» di Barbès, grazie al suo intenso lavoro e alla buona condizione economica raggiunta, decide di acquistare una casa in un quartiere borghese dell’ovest parigino (i beaux quartiers narrati da Louis Aragon).
La sua scelta ricade su di un bel palazzo déco con ampio giardino attorno.
A Parigi quando si cambia abitazione è buona norma presentarsi ai vicini e quello più prossimo al nostro mercante è uno dei più noti medici della città, un vero luminare della scienza medica. Come spesso capita tra vicini, una volta stabilito il contatto, ci si confronta sui problemi del quartiere, sulla manutenzione della casa e i due vicini iniziano ad informarsi reciprocamente sui lavori fatti, tutti di grande qualità e molto costosi.
A un certo punto il mercante chiude la comparazione affermando che comunque la sua casa avrà un valore immobiliare più alto rispetto a quella del medico.
Per quale motivo? Gli chiede quest’ultimo, piuttosto alterato vista la quantità di denaro speso.
La ragione è semplice, quando io venderò casa, dice il mercante, dirò che il mio vicino è un importante medico parigino, se la vende lei dirà che il suo vicino è un arabo.
La foto della cover e quelle nel testo sono dell’autore.
In Copertina: Paris Sebastopol sotto la pioggia, all’imbrunire.
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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it
Anch’io sono stata a Parigi e i sono affezionata a quella città. Aldilà dei suoi monumenti e dell’architettura, ciò che resta nel cuore sono i bistrot, la senna, la gente che colora le strade e quel fascino di una grande città che non estranea del tutto chi la vive, ma che avviluppa dentro di sé, rendendoci una parte viva di un attimo di storia.