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Chiedo preventivamente scusa ai miei amici con figli piccoli. Non intendo offendere nessuno e apprezzo la loro tenerezza, almeno nelle intenzioni e nella buona fede che non si nega a nessuno.

Ma non posso più vedere cartelli così, e ne vedo a dozzine.

Cioè, un attestato di coraggio per una puntura? che neanche si sente e dura mezzo secondo? e tutti lì, genitori, infermieri, medici… – gentilissimi, per carità – a rassicurare, distrarre, consolare, premiare…

Ma allora quando dovranno fare le tonsille (si fanno ancora?) cosa ci inventiamo? Gli regaliamo un Rolex?

E se nostro figlio dovesse subire un’appendicectomia prima di prendere la patente per risarcirlo di tanta tragedia gli compriamo uno yacht?

Se gli facciamo credere che un’iniezione sia un problema tale da meritare un diploma di coraggio, quando si troveranno di fronte un problema vero, piccolo o grande ma certo più grande della vaccinazione, come, dove, da chi troveranno, impareranno il coraggio?

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Quando guardiamo al telegiornale insieme a loro – speriamo – bambini della loro età, e anche più piccoli, spesso soli, su un gommone nel mare in tempesta – se pur non li vediamo affogare – come chiameremo quel coraggio? come lo spiegheremo ai nostri figli? con quale senso delle proporzioni e delle parole? Se gli diamo un diploma con i disegnini per una puntura, cosa dovremmo dare a chi è scampato alla morte in mare per mettersi in salvo dalla fame dalla guerra dalle torture?

Ma c’è di più. Per quello che ho visto io, per quello che mi hanno raccontato le persone direttamente o i miei amici volontari negli hub vaccinali, ci sono ragazzi più che maggiorenni che svengono per una puntura (e non li sto deridendo, la paura è rispettabilissima sempre), e così adulti, ho conosciuto un manager che era terrorizzato (non dal vaccino, proprio dall’ago in quanto tale), è svenuto poi – senza alcun effetto collaterale, solo per lo stress – dopo l’iniezione ha dovuto dormire tutto il pomeriggio per riprendersi. Questo io lo rispetto totalmente, sia chiaro. A me fanno paura i gatti, figuriamoci (ma quando se ne avvicina uno e non scappo non pretendo un diploma, soprattutto so che solo l’idea farebbe sghignazzare). Voglio dire, c’è una percentuale piccola di bambini che ha paura esattamente come i grandi, ma è una piccola percentuale, non una cosa che è eroica a causa della giovane età.

Quello che mi fa paura – ecco, paura, sì, paura davvero – è che questi cartelli dicono la nostra paura di adulti, non quella dei nostri bambini. Ai quali la trasmettiamo, semmai, dicendo a noi stessi che assumiamo la loro, bambini, figli sui quali proiettiamo ansie e terrori che poi loro assorbiranno, invece di esserne protetti (che sarebbe poi il compito degli adulti verso i piccoli, no?, liberarli per quanto possibile dalla paura della vita invece che inculcargliela a dosi massicce fin da piccolissimi).

Scusate se la vecchiaia mi porta a un paragone di sicuro spropositato. Non riesco però a non pensarci quando vedo questi cartelli.
Penso a ragazzini poco più grandi di questi nostri Supereroi dell’Ago (non ancora dell’Ego, auguriamoci, ma attenzione, che il passo è più breve di quanto non sembri), ai ragazzini entrati nella Resistenza, catturati, del tutto consapevoli che poche ore dopo sarebbero stati fucilati e scrivevano letterine alla mamma con tutta l’ingenuità dell’essere in quel momento più piccoli della loro giovanissima età ma con un orgoglio e un coraggio che ancora oggi ci commuove. “Non piangere, mamma, muoio volentieri per la Patria, per la Libertà, contro l’oppressore. Peccato che non ho ancora mai baciato una ragazza”.

Ecco, invece del diploma del coraggio con i disegnini, dai sei-sette anni in su prima o dopo la vaccinazione farei leggere ai nostri ragazzini una paginetta delle Lettere di condannati a morte della Resistenza. Così, per il senso delle proporzioni di cui dicevo, così, per dare loro un’idea sensata di cosa significhi avere coraggio.

Sogno – ma non credo di essere molto lontano dalla realtà – che i nostri bambini la sera prima del vaccino dicano a quei genitori più bambini di loro: “Non preoccuparti, mamma, è solo una puntura. Cosa vuoi che sia. Sono piccolo, non scemo. Dopo però mi porti da McDonald’s”.

Nota: questo articolo di Piergiorgio Paterlini è già uscito in  http://paterlini.blogautore.espresso.repubblica.it/

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Piergiorgio Paterlini

Nato a Castelnovo di Sotto, in provincia di Reggio Emilia, nel 1954, è autore di libri, programmi televisivi e testi teatrali. Assieme a Michele Serra e Andrea Aloi, è tra i fondatori del giornale satirico «Cuore». Scrive per «Repubblica» e per l’edizione online de «l’Espresso», dove tiene il blog d’autore «Le Nuvole». Tra i suoi libri: Ragazzi che amano ragazzi (Feltrinelli, 1991, 15 edizioni), Matrimoni gay, (Einaudi Tascabili Saggi, 2005), l’autobiografia a quattro mani con Gianni Vattimo Non Essere Dio (2006, nuova edizione aggiornata Ponte alle Grazie, 2015), Fisica quantistica della vita quotidiana. 101 microromanzi (Einaudi, 2013), I brutti anatroccoli (Einaudi, 2014) e Lasciate in pace Marcello (Einaudi, 2015). Matrimoni (Einaudi, 2014), Bambinate (Einaudi, 2017). Ha sceneggiato il film Niente paura, presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2010.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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