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Alessandro Profumo è l’amministratore delegato di Finmeccanica (ora Leonardo-Finmeccanica), la prima industria italiana di armi, elicotteri, sistemi di difesa. E’ per dimensioni la terza azienda d’Europa del settore. Il Ministero dell’Economia ne detiene circa il 30%. Un colosso, che non può che essere amministrata dal colosso degli AD. Profumo, appunto. Un uomo talmente potente che si potrebbe credere sia l’eponimo del celebre romanzo di Patrick Suskind “Il Profumo”, appunto, laddove si legge: “Il profumo ha una forza di persuasione più convincente delle parole, dell’apparenza, del sentimento e della volontà. Non si può rifiutare la forza di persuasione del profumo, essa penetra in noi come l’aria che respiriamo penetra nei nostri polmoni, ci riempie, ci domina totalmente, non c’è modo di opporvisi.“

La potenza persuasiva che Unicredit ha dispiegato, piazzando alla clientela durante gli anni della sua reggenza migliaia di contratti per strumenti derivati, evoca davvero il potere del profumo e dell’uomo che ne porta il nome. Alessandro Profumo, infatti, dal 1997 al 2010 è stato Amministratore Delegato del Gruppo Unicredit, che sotto la sua guida è passato da 15.000 a 160.000 dipendenti. Finora la fedina penale di Profumo (che non può essere immacolata, perchè per un manager del suo livello il casellario giudiziale è una tacca del curriculum) contava una condanna a sei anni e mezzo di reclusione (in primo grado) per aggiotaggio e falso in bilancio ma, inopinatamente, non per la gestione Unicredit ma per quella di Monte dei Paschi – è passato anche da lì, dal 2012 al 2015. Adesso la procura di Bari ha rinviato a giudizio Profumo e Ghizzoni (suo diretto successore alla poltrona di AD Unicredit) per la bancarotta fraudolenta dell’azienda Divania, una eccellenza nella esportazione di divani negli Stati Uniti, saltata in aria non per problemi industriali, ma – stando all’accusa – per il dissesto finanziario legato all’andamento in perdita di oltre 200 contratti derivati sottoscritti dal 2000 al 2005 con Unicredit.

Ma cosa sono i “derivati”? Per spiegarlo attingiamo alla fonte derivati.info (un sito con questo nome lo saprà cosa sono, no?): “i derivati non sono titoli muniti di un proprio valore intrinseco bensì derivano il loro valore da altri prodotti finanziari ovvero da beni reali alla cui variazione di prezzo essi sono agganciati: il titolo o il bene la cui quotazione imprime il valore al derivato assume il nome di sottostantei derivati possono assolvere tanto ad una funzione protettiva (ossia di copertura) da uno specifico rischio di mercato quanto ad una finalità meramente speculativa. Nel concreto, non può negarsi che sui mercati finanziari globali i derivati si siano affermati soprattutto quale mezzo di speculazione.” . Eh no, nel concreto non può negarsi che la finalità speculativa (per la banca) abbia nettamente prevalso sulla finalità di copertura da un rischio (per il cliente). Sarebbe infatti curioso che centinaia di aziende private e persino di Comuni abbiano perso milioni di euro per tutelarsi da un rischio. Se ne deduce abbastanza facilmente che lo strumento è stato venduto come copertura da un rischio, ma ha funzionato come fonte di guadagno per la banca e di perdita per il cliente. Non ci spingiamo al punto di dire quello che peraltro tutti pensano: ovvero che ab origine la maggior parte di questi strumenti erano tecnicamente congegnati per far guadagnare la banca e far perdere il cliente. Sta di fatto che questo è quanto è successo, perlomeno nel caso di Divania, azienda che – stando alla Procura di Bari – andava bene, ed è saltata per aria proprio per l’impossibilità di saldare il gigantesco debito accumulato nei confronti della banca (Unicredit) a seguito di una successione di contratti per derivati che l’hanno condotta sul lastrico. Alla faccia della copertura del rischio.

Ma questo non è un articolo di approfondimento finanziario. Mi interessa di più mostrare due caratteristiche di certo top management italico. La prima è la capacità di espandere un business puntando al massimo guadagno possibile (per gli azionisti) a scapito degli altri portatori di interessi, ovvero clienti e dipendenti. I clienti vengono sostanzialmente raggirati con il racconto fasullo della funzione di uno strumento finanziario, che finiscono per sottoscrivere (e quindi formalmente le carte sono spesso in ordine, anche se nel caso Divania sono emerse anche diverse irregolarità formali) ma di cui non hanno capito nulla. La scarsa consapevolezza ed educazione finanziaria della clientela, anche istituzionale, è indubbiamente una concausa di queste pratiche farlocche, ma questo non esclude, anzi aggrava, la responsabilità di chi spinge, con ossessiva pressione, la sua struttura commerciale a collocare in massa certe fregature. La seconda caratteristica di questi capitani d’industria e cavalieri del lavoro (Profumo è stato insignito anche di tale onorificenza) è l’attitudine a risultare nullatenenti, o a nascondere il proprio patrimonio dietro paraventi e coperture che rendono spesso impossibile aggredire le ricchezze, perchè risulta improbo rintracciare le strade oscure attraverso le quali le ricchezze hanno viaggiato fino a rendersi irreperibili. A conferma di ciò sta la circostanza che la Procura di Bari ha disposto il sequestro conservativo dei beni degli imputati, per garantirsi i futuri risarcimenti in caso di condanna dei quattordici banchieri sotto accusa, e nel caso di Profumo cosa ha trovato? Che non risulta intestatario di alcun immobile. Un uomo che ai bei tempi guadagnava circa 9 milioni di euro l’anno e che è andato via da Unicredit con una buonuscita di 38 milioni (di cui due, bontà sua, dati in beneficenza) non risulta proprietario nemmeno di un bilocale al Lido delle Nazioni. Quindi alla procura non è rimasto altro che pignorare il quinto dei suoi emolumenti, dal momento che a lui non è intestato niente che abbia delle fondamenta, nemmeno una prima casa o un garage. Che è un esito quasi comico, visto che la cosiddetta “cessione del quinto” è lo strumento di elezione delle classi meno abbienti per accedere alla possibilità di acquistare una macchina o una televisione.

La cosa più sconfortante è che questo modo di generare profitto, questa determinazione nel vessare la struttura commerciale, spingendola a piazzare prodotti in maniera malandrina pena l’emarginazione dal consorzio lavorativo, l’isolamento, il trasferimento punitivo, questa weltanschauung viene premiata. E passi, se venisse premiata solo dai padroni privati che lucrano dalle spregiudicate e disinvolte gesta di cotanti amministratori. Il fatto è che questi signori vengono chiamati dallo Stato alla guida delle più strategiche industrie pubbliche, o a prevalente capitale pubblico, del nostro Paese. Infatti, Profumo è stato chiamato a “risollevare” le sorti del Monte dei Paschi di Siena e proprio durante la sua Presidenza lo Stato è diventato azionista della Banca (che dal 2017 è detenuta per due terzi dal Ministero dell’Economia e Finanze), e attualmente è l’Amministratore Delegato di una delle maggiori industrie italiana a partecipazione statale: Leonardo-Finmeccanica, detenuta al 30% dal MEF. La grottesca “consolazione” è che adesso gli tocca lasciare il quinto del suo stipendio come capita a noi comuni mortali, che ci indebitiamo per cambiare la macchina o sostituire gli infissi di casa. Con la fatale differenza che il suo stipendio non è quello di un comune mortale, ma gliene basterebbero quattro quinti per comprarsi casa su Marte, se solo non fosse allergico al mattone.

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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