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Nella solitudine necessitata dal morbo, come un’eco fragorosa, rimbalzano le perdite di amici con cui si è condiviso percorsi di vita, non solo fisica, ma intellettuale e culturale. Così è stato per Alberto Arbasino, un ‘Maestro’, la cui estensione di pensiero e di conoscenza mi aveva potentemente attirato: scrittore, artista, musicologo, politico e soprattutto inventore di personaggi proverbiali. Nessuno può dimenticare la casalinga di Voghera e la sua interiezione “signora mia”, inno ufficiale alla presunzione piccolo-borghese. In questa polisemia di interessi resta memorabile la sua mise en scène di Carmen a Bologna, che mi rapì dove, per la prima volta in Italia, l’azione si svolge nella contemporaneità, aprendo la strada ad una moda che ha visto alcuni risultati strepitosi e altri deprecabili.

L’altro aspetto, forse il più vistoso nella carriera di intellettuale engagé, rimane la sua adesione al Gruppo ’63, ispirato da Umberto Eco che gli procurò la rottura dei rapporti con Giorgio Bassani accusato dal Gruppo di essere la Liala del Novecento. L’autore ferrarese rispose impedendo la pubblicazione presso Feltrinelli del romanzo arbasiniano. Una frattura che si compose solo dopo la morte di Giorgio Bassani, in questo frangente convinto da amici comuni.

Ma tornando al personaggio Arbasino, memorabile rimane nel ricordo l’incontro che si svolse in un convegno organizzato da Anna Dolfi e Maria Carla Papini tra il 1995 e il 1996 in due sedute che misero a confronto 11 tra i più grandi scrittori italiani del periodo; ma nel libro che attesta quegli incontri ( Bulzoni 1998) non appare il nome di Arbasino, che rifiutò il consenso alla pubblicazione. Eppure, avendo con lui svolto un intenso dialogo in quella occasione, molti amici ricordano la stessa postura che già in sé era specchio delle sue scelte. Apparve infatti con il consueto impermeabile, che faceva parte del suo, come dire, aspetto esteriore. Lo ricorda bene Marco Belpoliti nel suo articolo La frivolezza di Arbasino, apparso il 24 marzo 2020 in Doppio Zero. Nella sua performance fiorentina si palesò tenendo in una mano il pacchetto dei thé comprati ad Old England, il negozio che solo gli aristocratici, gli intellettuali, ma soprattutto i dandies frequentavano e nell’altra mano i pasticcini comprati da Giacosa altra icona fiorentina.

Ricordano pure gli amici presenti, che vi fu un gara tra chi scrive queste note e l’autore, tutta portata sul profilo scivoloso ma eccitante del dandismo. Purtroppo Arbasino non permise che venisse pubblicato il suo intervento. Il vero incontro a avvenne Ferrara nel Castello Estense dove, in un convegno assai ricco e complesso, il 2 febbraio 2006 presentammo Raffaele Manica editore del Meridiano dedicato ad Arbasino ed io il suo libro Dall’Ellade a Bisanzio, pubblicato da Adelphi. La foto che apre questo articolo ci vede tutti e tre assai contenti e potrei dire gioiosi. L’amico Manica mi raccontava proprio oggi un episodio che ci coinvolse il giorno successivo. Arbasino volle recarsi a vedere a Padova la grande mostra su De Chirico e la metafisica perciò il giorno successivo prendemmo il treno. E qui scoppiò la discussione che ancora delizia il mio amico romano. Mi racconta che fu ignorato per tutto il viaggio, perché Arbasino ed io ci immergemmo in una fitta conversazione, o meglio sfida, su chi aveva più qualità di rose e da dove provenivano. Fu un bel pari e patta!

Negli anni successivi ci si sentiva regolarmente al telefono e mi fu chiesto di scrivere due schede su due autori Filippo de Pisis e Alberto Arbasino, nientemeno che nel prestigioso Dictionnaire du dandysme. Feci le schede poi al momento di rifinire le voci secondo le regole editoriali, pressato da altre incombenze non detti seguito all’impresa. Ma questo l’ho scoperto solo dopo che ho torturato per due ore il mio tecnico, che ormai chi mi legge conosce come San Lorenzo! Gli anni trascorsero in fretta. Ci si vedeva sempre più raramente, finché si ammalò gravemente e un anno prima di morire perse anche il suo amato compagno Stefano. E a quel punto come mi dice Raffaele Manica rinunciò alla vita.
Tra le cose che ho scritto, ricordandomi della sua intelligenza, una la voglio riproporre come devoto omaggio all’amico scomparso.

“Attendo con impazienza il commento linguistico di uno tra i più grandi scrittori italiani, Alberto Arbasino, sulla disposizione prospettata dalla ministra Gelmini dell’ introduzione del grembiule a scuola, che sarà in realtà una divisa, ‘un abito quasi fashion’. Eccola la paroletta magica: anche il grembiule non dovrà avere una funzione esclusivamente egualizzatrice, ma ‘quasi fashion’, cosicchè sia la casalinga di Voghera, che la mamma alto borghese potranno, nel nome della moda, recuperare la dignità calpestata della loro prole, assolutamente contraria a rinunciare alla ‘fascion’, come allegramente si sente pronunciare da chi sembra sempre essere digiuno della terza ‘i’ ( Ricordate? Il programma della ministra Moratti sulle tre ‘i’ tra cui l’Inglese?). E mi spiace che la proposta (opinabile) sia stata espressa in un programma che tenta di porre argine e regole a una scuola sempre più avviata a un destino di irreversibile decadenza voluta, perseguita protervamente dalle disposizioni bipartisan ( non a caso la Gelmini si rifà al progetto Fioroni ), che si susseguono dal tempo della grande riforma e che hanno prodotto la situazione su cui è impostata la scuola oggi. L’ha ben individuata Antonio Scurati sulla Stampa del 2 agosto a proposito della reintroduzione del ‘sette’ in condotta o della educazione civica: “Il rischio è quello di una tremenda situazione da doppio legame. Il padre che intima al figlio “imitami!”, ma al tempo stesso, gli ingiunge “non m’immitare!”. Il risultato , come sappiamo, la schizofrenia. Personale e sociale.” Si apre di nuovo dunque il problema più urgente; quello che affannosamente ogni governo tenta di risolvere, ma che non dà soluzioni apprezzabili, proprio perché non affronta alla radice l’unico vero dilemma. Quale tipo di educazione vogliamo per i nostri figli? Umanistica, scientifico-tecnologica? O piuttosto, come dovrebbe essere, preventivamente sociale? Un’educazione che eticamente apra al comportamento sociale, quasi una necessità, per potere affrontare le varie scelte d’indirizzo a cui i giovani si avviano.
Ricordo il fascino delle divise nelle public schools inglesi ( che come si sa sono private) o in qualche raffinatissima scuola privata americana. Sono sparite. Le divise ormai dismesse anche in Inghilterra erano il segno castale di una parte della società destinata al comando. Ora si trovano, e giustamente, nei paesi poverissimi che, imponendo la divisa, danno una dignità sociale a chi sta studiando e non lo deve fare vestito di stracci. Ve lo immaginate, come sospirosamente fantastico, il direttore di una celebre maison de mode, che s’appresta a proporre la divisa ‘quasi fashion’ ai robusti allievi di una scuola tecnica o professionale in ‘pantaloni e camicie bianchi con sopra un golf blu’, o alle allieve di qualche liceo rese ‘più sexy’ – parola di stilista – da ‘gonne a pieghe o pantaloni’? Ma non hanno occhi chi propone questa irrealizzabile memoria delle neiges d’antan, mentre alla porta tra uno sfarfallio di veline e botoline si delinea il gusto della ‘fascion’ per i giovani e i giovanissimi? Ho la netta sensazione che nella proposta della giovane ministra si celi un’ansia di fare, che possa porre rimedio alla catastrofe imminente del fallimento della scuola di stato e del destino delle Università di diventare fondazioni private.
La calura estiva m’impone di tenere su un tono volutamente leggero un problema, IL PROBLEMA, che per primo dovrebbe interessarci, quasi più necessario dell’emergenza spazzatura o del conflitto d’interessi. E mi dispiace che la sinistra non senta la dovuta e morale necessità di proporre un piano d’intervento (e in questo senso il dialogo con il governo sarebbe auspicabile) sul destino dei nostri figli. Non mi piace che si scherzi sul ‘sette in condotta’ come estrema ratio per convincere al rientro in una società retta da una costituzione i giovani ribelli. Il tenue compiacimento che traspare da chi ha ricevuto sette in condotta: da Francesco Borelli a Margherita Hack, da Sandro Curzi a Alba Parietti non è concepibile. Perché non ci si domanda quanti teppisti hanno preso sette in condotta? L’immaginario del genio e della protesta si è chiuso con il ‘68. Ero un ragazzetto, 1954 terza media, ma per combattere l’ingiustizia che ritenevo mi fosse fatta, io scelto per sperimentare il nuovo cambiamento del sistema scolastico nelle famose classi X della Dante Alighieri, non ho preso il sette in condotta, ma mi sono fatto semplicemente bocciare: dieci in italiano e cinque in matematica. Pervicacemente anche a settembre. La ragione? Avevano detto alcuni professori, a mia madre che io nella vita non sarei riuscito a nulla. Meno male che ho ripetuto. Mi son letto per intero tutta l’Odissea, ho imparato a memoria il canto di Ulisse, finalmente traducevo passabilmente dal latino e non avevo bisogno di camicia bianca e golf blu, mentre con occhi pietosi (e indagatori) cercavo sotto il grembiule nero delle mie compagne quelle forme, che distrattamente lasciavano vedere tenendolo slacciato. Non escludo che queste proposte, meno naturalmente la ‘quasi fashion’, non abbiano una loro coerenza e validità. Tuttavia esse non reggono, perché ci si dimentica la condizione degli umiliati e offesi che sono naturalmente i docenti, le vere prime vittime (anche se qualche volta colpevoli) del sistema scolastico. […] “
(Ferrara, 3 agosto 2008)

 

Foto di copertina: Ferrara, 2006, Alberto Arbasino tra Raffaele Manica e Gianni Venturi in occasione della presentazione al Castello Estense del volume Adelphi Dall’Ellade a Bisanzio.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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