LA RIFLESSIONE
Gli Haiku, pura essenza del linguaggio fra presente ed eterno
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Molti di noi hanno sentito parlare degli haiku, piccoli componimenti giapponesi, essenziali, minimalisti, profondi, incisivi, intensi, come le piccole cose sanno essere. Poche righe semplici che raccolgono e sintetizzano l’essenza della vita, della semplicità, dell’amore per l’essere umano e per tutte le piccole cose che ci circondano.
Parliamo degli haiku, che più rappresentano l’essenza della cultura giapponese, sia letteraria che di vita, molto legati alla cultura zen, e con l’obiettivo di far tornare il linguaggio alla sua essenza pura. Tutte le manifestazioni del reale sono, infatti, degne di essere decantate e rese poesia dai maestri dell’haiku, ma solo una mente libera da schemi e pregiudizi potrà cogliere la vera bellezza e l’energia vitale che vi scorre.
In un mondo fatto di parole forti, di grida e di urla, trovare un momento in cui si descrive il mondo semplicemente come lo si vede, non obbligatoriamente in maniera realistica, è importante e salutare. Vitale, direi. La visione di chi scrive va poi intrepretata dal lettore, gli si lascia la libertà d’immaginare, di vedere, di sentire, di percepire, di viaggiare.
Vi sono due modi di costruire gli haiku, nati nel Giappone del XVII secolo, che seguono due diversi stili di componimento. Nel primo, uno dei tre versi che lo compongono introduce un argomento, poi ampliato e concluso negli altri due versi. Nel secondo tipo, si trattano, invece, due argomenti diversi messi fra loro in opposizione o in armonia. In questo caso, due sono le modalità di svolgimento: il primo verso introduce un argomento, il secondo lo amplia e lo approfondisce, il terzo produce un’opposizione di contenuto, un capovolgimento semantico a volte anche così sottile da essere inavvertibile, che in qualche modo ha però relazione con il primo argomento.
La mancanza di nessi evidenti tra i vari versi lascia spazio a un vuoto ricco di suggestioni e immaginazione, quasi come una traccia che sta al lettore completare.
In Giappone si calcola che più di dieci milioni di persone si dilettino oggi a scrivere haiku. Tale genere letterario, dunque, pare essere di moda e possibile per molti, prestandosi bene alla possibilità di scrivere in versi. Pochissime righe per descrivere una bella luna, un paesaggio, un animale o una stagione che cambia, giocando sulla ricerca delle parole e sulla loro posizione all’interno dello schema dei tre brevi versi.
Di seguito qualche haiku…
Il mare si oscura:
il grido delle oche selvatiche.
Qualcosa di bianco.
Nel vecchio stagno:
Una rana si tuffa.
Rumore d’acqua.
Sotto una falce di luna
pallida è la terra
e bianchi i fiori di grano saraceno.
In occidente, furono gli autori americani della beat generation (in particolare Kerouac, Gary Snider e Ginsberg) a portarli seriamente alla ribalta. Alan Watts, un filosofo americano legato a tale generazione, definì l’haiku “un sasso lanciato nello stagno della mente di chi ascolta”. In Italia, tra il 1885 e il 1890 un giovane D’Annunzio aveva già pubblicato versi seguendo la metrica giapponese ‘tanka’ di 31 more (5-7-5-7-7) da cui deriva l’haiku, con il titolo “Outa Occidentale”. Qui, infatti, il vate scrive: Guarda la Luna / tra li alberi fioriti; / e par che inviti / ad amar sotto i miti / incanti ch’ella aduna. / Veggo da i lidi/ selvagge gru passare / con lunghi gridi / in vol triangolare/ su ’l grande occhio lunare. Giuseppe Ungaretti ne subì influenza e fascino (in “Notte di maggio”: Il cielo pone in capo / ai minareti /ghirlande di lumini) o così pure come Salvatore Quasimodo (in “Ed è subito sera”: Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole / ed è subito sera), Umberto Saba (in “Gli occhi della Plebe”: Si fermavano tutti … ad ammirare / “Che sia pazzo od ubbriaco?” – “Che ti importa / di ciò?” – Divertiti senza pensare) o Edoardo Sanguineti (nelle sue poesie, sezione ‘corollario’ sono pubblicati quattro haiku. Uno è il seguente: Sessanta lune: / i petali di un haiku / nella tua bocca). La lista potrebbe continuare, fino a Franco Battiato.
Una piccola catena poetica che può durare all’infinito, e a esso portare inesorabilmente. Se poi si volesse immaginare di scrivere tre versi e lasciarli continuare da qualcun altro, ecco che la catena diventa davvero magica. Un componimento collettivo, cui affezionarsi, che può portare lontano, cogliere in un solo attimo il presente e l’eterno, il limite e l’infinito, toccando le corde del cuore. Quello vero.
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(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it