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È la promessa di un ‘ritorno dal futuro’, ciò di cui narra il vangelo di Giovanni nella V domenica di Pasqua, che ricorre domani. Si parla di un allontanamento che turba il cuore dei discepoli, ancorché esso sia strumentale alla preparazione di ‘stabili dimore’, in cui loro Lo raggiungeranno. Resta comunque il turbamento, per fugare il quale il Maestro si preoccupa di rendere saldo il loro cuore invitandoli a “credere”, cioè a fondare ed edificare sé stessi sulla solidità del Padre rivelata dalla pietra inutilmente scartata dagli altri costruttori e posta invece per sempre come pietra d’angolo. Ma ciò non basta. Di lì a breve egli donerà un altro Consolatore, tramite il quale seguiterà a rimanere in mezzo a loro. Lo Spirito, infatti, continuerà a far scaturire dalla pietra del sepolcro vuoto, come da fonte inesausta, quella santità ospitale del Nazzareno profetizzata anche da Ezechiele con l’immagine dell’acqua sgorgante dal tempio di Dio. Da piccolo rigagnolo, qual è stata la sua vicenda terrena, esso diviene a poco a poco fiume navigabile nella storia e sui suoi argini crescerà ogni sorta di alberi da frutto, di cui la comunità di tutti i credenti si ciberà utilizzando le foglie come medicina (Ez 47, 1-12).

Questa ospitalità resterà sempre con i suoi e con tutti quelli che crederanno, sulla sua parola, che alla fine il male non vincerà. Una fede così salda da arginare l’eccesso del male, anche a rischio della propria vita. Una convinzione così nitida da renderci maggiormente consapevoli della nostra condizione umana, tanto da indurci ad alzare il capo per vedere quale sia la destinazione di questo nostro viaggio del vivere.
“Non si turbi il vostro cuore. Credete in Dio, credete anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore; altrimenti vi avrei detto: – Me ne vado? – Vado a prepararvi un posto. E quando me ne sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché dove io sono, siate anche voi” (Gv 14,1-3, traduzione di R. Schnackenburg).

Anche Santa Teresa d’Avila nel suo Castello interiore parla di “Moradas” (dimore), o meglio spazi dell’anima riservati a nuovi incontri di amicizia e di personalizzazione. “Vi sono molte dimore nel cielo – ella scrive – vi sono anche molte vie spirituali”, luoghi non luoghi, perché interiori, spazi di amore – così chiama le stanze del castello interiore – cui si accede attraverso quella porta, che è l’umanità di Gesù: il quale ci chiama in amicizia al dialogo, dentro e fuori uno spazio di esperienza di amore che può giungere fino all’Unione mistica, eppure sempre attraverso la via affettiva, ovvero tramite l’umanità di Gesù. Pier Crisologo a tal proposito scrive: “Ascolta il Signore che chiede: vedete, vedete in me il vostro corpo, le vostre membra, il vostro cuore, le vostre ossa, il vostro sangue. E se temete ciò che è di Dio, perché non amate almeno ciò che è vostro? Se rifuggite dal padrone, perché non ricorrete al congiunto?” (Discorso 108, PL 52).

Mai come in questo tempo ho sentito l’urgenza di dimorare nell’Altro, gustare la sua compagnia – dolce amicizia – e chiedere che tutto questo che ci accade finisca; accompagnato dal desiderio di imparare a contare i giorni che ci separano dalla fine, per arrivare alla sapienza del cuore (Sal 90, 12). Mai come ora avverto che l’uomo non è solo in quest’impresa e sperimento che la libertà è capace di affidarsi all’altro in una reciprocità ospitale così intensa da poterci unire al salmista cantando: “Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio: rendi salda per noi l’opera delle nostre mani, l’opera delle nostre mani rendi salda”.
Nell’Apocalisse le comunità perseguitate hanno solo immaginato la fine: la sconfitta del drago seguita dall’avvento del Regno di Dio. E l’hanno sperimentata all’interno di una liturgia cosmico-planetaria sconvolgente, apocalittica appunto. Ma non nella forma di una rottura tragica in cui tutto implode e viene risucchiato in un buco nero. Piuttosto come una frattura instauratrice: la nascita di un virgulto da un tronco sradicato, la fuoriuscita da un riccio di castagna del pane dei poveri, come la Pasqua che fa sgorgare la vita dalla morte. Il sapere della fede non verte tanto sul come e quando tutto questo accadrà, ma sul fatto che comunque accadrà.

La visione di Isaia (47,10; 25,8) è ripresa nel settimo capitolo dell’Apocalisse. Si ha la prolessi, come in una liturgia eucaristica prognostica, l’anticipazione di ciò che dovrà accadere, del lieto fine: una Pasqua per tutti proprio nel presente doloroso della storia e nel travaglio desolante e nel gemito dei popoli e delle genti. Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna”, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. “E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi». La sapienza del cuore umano è quella che conosce la compassione, e vive l’attesa come un dono, consapevole che, nel frattempo, il proprio compito è quello di asciugare le lacrime. E di asciugarle nello stile del Risorto, che incontra i suoi fratelli, di nuovo straniero tra stranieri, e si coinvolge nel loro dolore – come fece con Maria il mattino di Pasqua chiedendole: “Perché piangi?” – per mutarne le sorti.

Johann Baptist Mezt direbbe che la memoria del ritorno del Signore deve diventare per noi ‘memoria pericolosa’: quella della passione di Cristo, capace di rimettere al centro le vittime, nella visione cristiana della storia. E grazie al suo sguardo sul futuro (riserva escatologica), i cristiani e la chiesa fanno discernimento sulle realtà penultime, per riaffermare che il singolo individuo non può essere considerato come materiale, strumento, mezzo. Questa ‘memoria sovversiva’ impone di non abbandonare la storia, ma di coinvolgersi in essa e testimoniare il vangelo con pratiche profetiche, nello stile di Gesù, accollandosi le storie degli uomini e delle donne delle beatitudini.
Servirà rimettere al centro il tema conciliare, che ribadisce l’indole escatologica della chiesa, chiamata a discernere e giudicare le realtà penultime, nel cono di luce delle realtà ultime: l’avvento del Regno, il ritorno del Cristo. Il tutto ricordando che la chiesa “ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio […], ha per legge il nuovo precetto di amare […], e finalmente ha per fine il regno di Dio… Tra le tentazioni e le tribolazioni del cammino, la Chiesa è sostenuta dalla forza della grazia di Dio, promessale dal Signore, affinché per l’umana debolezza non venga meno e sotto l’azione dello Spirito Santo, rinnovi sé stessa, finché attraverso la croce giunga alla luce che non conosce tramonto… Fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora (2 Pt 3,13), la Chiesa peregrinante nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo; essa vive tra le creature, le quali ancora gemono, sono nel travaglio del parto e sospirano la manifestazione dei figli di Dio”.

Da ultimo una storia rabbinica, dopo aver letto la quale non mi domando più cosa stia facendo Gesù risorto per preparaci un posto. Essa ci parla delle dimore celesti – come quelle cui tendeva Teresa d’Avila – luoghi da attraversare per raggiungere il cuore dell’umanità passando dalla notte oscura della disumanità e del disamore. È la storia di rabbi Isacco di Wùrka e Mendel di Kotzk, due maestri hassidici legati da un’amicizia fraterna: anche se il primo, Itzhak di Wùrka, era tutto di compassione, mentre il secondo, Mendel di Kotzk, anelava alla verità. Sennonché Itzhak di Wùrka muore prematuramente. E suo figlio, sconsolato, al termine dei trenta giorni di lutto stretto, si reca a Kotzk dove viene ricevuto dal Maestro.
– Rabbi, in questo primo mese di lutto ho atteso un segno da mio padre … invano.
– Anch’io – risponde il Maestro – mi aspettavo un cenno dal mio amico. Anch’io, come te, non ho percepito nulla. Allora ho deciso di spingermi io lassù, sino a quelle regioni dove tuo padre adesso dimora. Mi sono elevato e sono entrato nelle hekhalòt [dimore] celesti.
Tuo padre era stato visto entrare nella stanza di re David, ma da lì se ne era andato. E poi nella stanza del nostro Maestro Mosè. E poi nelle stanze dei patriarchi, Abramo, Isacco, Giacobbe. Stanza dopo stanza, ho mancato di incontrarlo, sempre di poco. Infine sono giunto nella hekhàl [dimora] dei progenitori. Ed è Eva stessa che mi dice: “sì, Itzhak è stato qui, ma se ne è appena andato. Vai da quella parte, attraversa la foresta e lo troverai”. Mi sono fatto coraggio e ho attraversata quella foresta umida e nera. Al di là, davanti a me, un oceano infinito. Un oceano grigio, dalle onde immense che gemono nell’infrangersi l’una contro l’altra. Sulla riva, un uomo. È Itzhak, mio amico, tuo padre! Come soleva in vita si tiene appoggiato al suo bastone. Corro da lui, lo abbraccio:
– Itzhak, amico mio, eccoti finalmente.
– Cosa fai qui?
Mendel, amico mio. Nulla è cambiato. Faccio qui quello che facevo in vita: asciugo. Questo, davanti a noi, è l’oceano delle lacrime del nostro popolo. L’oceano che da tutta una vita ho giurato di asciugare … e che prosciugherò”, (in: Haim Baharier, La Genesi spiegata a mia figlia, Milano 2015, 129-130).

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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