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Tutti coloro che credono fermamente nella “politica come professione,” benché a gran parte delle classi dirigenti odierne manchino in modo manifesto e perentorio quelle tre qualità che Weber attribuiva all’uomo politico (passione, senso di responsabilità e lungimiranza), probabilmente rigetteranno l’accorato appello al dialogo e alla pace lanciato dalle pagine del Berliner Morgenpost dal celebre pianista e direttore d’orchestra Daniel Barenboim, direttore dell’Opera di Berlino, di duplice cittadinanza israeliana e palestinese (!), a lungo impegnato per la pace in Medio Oriente,

I vari congiurati del conflitto israelo-palestinese, i diversi signori della guerra palesi ed occulti, i molti machiavelli sparsi nel Vicino Oriente, ma anche le vittime di entrambe le parti, stremate dai lutti e dal dolore, probabilmente avrebbero da eccepire alla semplicità di Daniel Barenboim che afferma in modo piuttosto risoluto: Es gibt keine militärische Lösung, “non c’è una soluzione militare” (al conflitto israelo-palestinese).

Probabilmente ciascuna delle parti in causa condivide in fondo, in segreto, questa affermazione semplicemente per ragioni pragmatiche o per realismo politico – con un ragionamento che forse potrebbe assomigliare al seguente: anche se una vittoria militare sarebbe tecnicamente possibile, i suoi costi politici sarebbero fin troppo eccessivi, per cui è meglio usare la forza solo fintantoché ci sarà possibile e accettabile per i parametri della diplomazia occidentale, per tornare così alle trattative…

Si tratta ovviamente di un percorso che non rispecchia nessuna delle doti civili idealmente ascritte al “politico di professione,” – un percorso, tra l’altro, miope, di brevissimo respiro ed aspramente criticato anche da diversi esponenti dei servizi di sicurezza israeliani. L’ex direttore dei Servizi Segreti interni (Shin Beth) e analista Yuval Diskin, in un’intervista all’edizione inglese del settimanale tedesco “Der Spiegel,” ad esempio, critica aspramente la politica di forza di Netanyahu e paventa i costi di un’azione militare che per una sua piena realizzazione richiederebbe uno o due anni con l’inimmaginabile conseguenza di provocare due milioni di profughi palestinesi.

A dire il vero, le parole di Daniel Barenboim sembrerebbe quasi banali, probabilmente condivise da tutti i cosiddetti “uomini di buona volontà,” se non fosse per un dettaglio, una piccola ma importante sfumatura che quasi stranisce chi legge il suo appello, aspettandosi solo musica e buoni sentimenti. Leggiamo: “Noi palestinesi abbiamo l’impressione di dover trovare finalmente una soluzione giusta. Dal profondo del nostro cuore ci struggiamo per la giustizia, per i diritti che spettano a ciascun popolo su questa terra: autonomia, indipendenza, libertà e tutto che ciò comporta. Noi israeliani abbiamo bisogno che venga riconosciuto il nostro diritto a vivere sullo stesso lembo di terra. La divisione della terra potrà avvenire solo dopo che entrambe le parti non solo avranno accettato, ma anche compreso che noi possiamo vivere fianco a fianco e certamente non dandoci le spalle.”

È straordinario questo richiamo al “noi:” “noi palestinesi,” “noi israelieni.” Straordinario soprattutto perché proviene da un grande artista che ha consapevolmente accettato una doppia cittadinanza e un doppio passaporto, israeliano e palestinese. Un artista insomma che non parla semplicemente “in prima persona,” ma riconosce anzi di essere già egli stesso ben più che una sola persona, bensì un insieme di possibili identità, perlomeno “due:” palestinese ed israeliana. È da questa concreta consapevolezza d’essere non un monolitico “io” ma un “io” plurale e doppio che nasce anche solo la possibilità verbale di lanciare un appello comune effettivamente da entrambe le parti in causa.

Non è la prima volta che gli artisti sanno parlare ben più profondamente dei politici. Mi piace pensare che sia la bellezza della musica ad avere ispirato Barenboim in modo da poterci ricordare ancora un volta il celeberrimo detto di Dovstojevsky: mir spasiet krasota. Cioè, sulla base dell’ambivalenza del termine mir (“mondo,” “pace”): non solo “la bellezza salverà il mondo” ma anche “la bellezza salverà la pace.”

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Federico Dal Bo

È giornalista pubblicista e traduttore, dottore di ricerca in Ebraistica, dottore di ricerca in Scienza della traduzione, residente a Berlino

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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