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Il tema – inutile girarci tanto attorno – è la violenza. E nel libro (“Gruppo d’azione. Sovvertire l’ordine, creare il caos”) è affrontato senza reticenze. I due autori, Alessandro Casolari e Filippo Landini, danno prova di maturità: non richiesti si mettono a nudo e si espongono al giudizio, con piena assunzione di responsabilità per quei fatti che, fra il 1986 e il 1992, li hanno visti fra i protagonisti. E non certo in senso positivo.

Sarebbe stato più comodo per loro lasciare scivolare nell’oblio quelle vicende ormai lontane nel tempo e nella memoria, confidando nell’evidenza che in questa nostra epoca tutto si dimentica, si cancella o, al più, si perdona. Invece i due hanno intinto la penna in un inchiostro ormai essiccato e lo hanno reso di nuovo ardente. Così hanno raccolto qualche apprezzamento e suscitato soprattutto scandalo e disapprovazione, come d’altronde è lecito e logico che sia, com’era facile prevedere. Come i due avevano ampiamente previsto.

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Immagini di scontri sugli spalti fra tifosi e ‘forze dell’ordine’

Di che cosa parla il volume “Gruppo d’azione”? Di una fase incandescente della storia del tifo sportivo ferrarese, di un gruppo ultras attivo a Ferrara fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta per il quale “andare alla Spal” era spesso solo un pretesto per attuare quelle che il più delle volte – neppure con un’espressione eufemistica – si possono catalogare come ‘bravate’. Molti degli atti da loro compiuti erano azioni di guerriglia urbana: danneggiamento e distruzione di auto, vetrine, negozi, cabine telefoniche (all’epoca esistevano ancora), beni di pubblica utilità. Oppure aggressioni fisiche a tifosi delle opposte fazioni, ma anche a semplici e inerti cittadini, a passanti. Insomma, tutto il peggio del campionario che si può immaginare pensando a un gruppo ultras. Azioni violente e gratuite, rese ancor più odiose e intollerabili proprio dalla futilità o dall’inesistenza di presupposti. Comportamenti che dallo stadio debordavano nella città e dalla domenica esondavano agli altri sei giorni della settimana.

Quale sia il senso dell’operazione di Landini e Casolari lo si evince dalle parole che gli autori scrivono in premessa al testo, il quale pure ha un suo interesse sociologico, in quanto testimonia una fase confusa della nostra storia recente. Storia che, per quanto aberrante, va conosciuta, indagata, compresa. Anche per evitare che si possa ripetere.

Casolari: “Prima di tutto il libro è una critica a me stesso per aver abbracciato scelte che hanno portato dolore a chi ha incrociato la mia strada in quegli anni e per non aver preso coscienza che alcuni comportamenti antisociali non avevano che un’unica via d’uscita, l’esclusione sociale e la preclusione alle varie tappe della vita. La mancanza di freni inibitori e una miope ideologia hanno determinato comportamenti delinquenziali; ma soprattutto la superficialità con cui si conducevano le proprie azioni determinavano un vero e proprio scollamento dalla realtà.
…Questa non è la storia di un gruppo di eroi, è la cronaca di un gruppo di ragazzi che attraverso le loro sciagurate scelte hanno deciso di intraprendere il sentiero della vita completamente in salita…
…Ho pagato di persona attraverso la detenzione carceraria …Nel 1999 mi sono arruolato… Queste esperienze mi hanno profondamente cambiato, ho potuto sperimentare di persona quali fossero le situazioni più tetre e angoscianti degli esseri umani coinvolti in conflitti armati e quanto siano importanti le parole ‘pace’ e ‘convivenza pacifica’…
…Possiedo amicizie fraterne di persone che hanno militato in quel gruppo e questo è un grande patrimonio, perché sono amicizie su cui ho potuto contare nei veri momenti del bisogno e a distanza di 29 anni sono la mia seconda famiglia”.

Landini: “…Aleggiava la voglia di raccontare. Già dalle prime battute ci siamo trovati di fronte ad impegno emotivo. Non solo a livello personale ma collettivo, un impegno che comunque andava compiuto. Non è stato semplicemente un viaggio nella memoria quello di raccontare la vita e le ‘gesta’ (…) di una generazione poco spensierata. È stata una ricerca del proprio passato da svolgere con la massima oggettività e autocritica.
…A distanza di tre decenni posso sicuramente affermare l’inutilità di molti comportamenti avuti, alcuni gravi non pochi con pessime conseguenze.

… Il Gruppo d’azione era la mia tribù urbana, all’interno della quale avevo più una condotta da strada che da stadio…”.

Il racconto dei fatti che fa seguito a tali premesse è asciutto, privo di epica e di ogni apologia. Ma privo anche di quella pelosa retorica pentitista che lo avrebbe reso fasullo. Ciò che avevano da dire gli autori lo hanno scritto con chiarezza nella prefazione, senza cercare giustificazioni, assumendosi ogni responsabilità, pronunciando la propria autocondanna, senza pietire l’indulgenza ‘della corte’.

ultrasAccennavo prima al fatto che la violenza appare più odiosa quando è insensata. Di norma è così. Il giudizio generale tiene conto dei presupposti, della causa scatenante. Come se una qualche motivazione la potesse rendere plausibile, accettabile o quantomeno ne attenuasse la portata.
Notiamo allora che il sottotitolo del libro è “Sovvertire l’ordine, creare il caos”: uno slogan che rappresenta il motto valoriale del Gruppo d’azione. Questo ci fa intendere, allora, che quegli ultras, più o meno consapevolmente, avevano definito un presupposto alla loro violenza. Quegli atti apparentemente così assurdi, sterili e insensati, avevano dunque una finalità, realizzavano in realtà un’intenzione precisa e manifesta: creare ‘il caos’ attraverso azioni violente in grado di sovvertire l’ordine costituito. Quanto tutto ciò fosse chiaro ai membri del gruppo resta dubbio, ma la volontà è dichiarata. E non si può non tenerne conto. C’è quindi nella considerazione del gruppo (o perlomeno dei suoi leader) la concezione di un impiego strumentale della violenza, usata a ‘scopo politico’, con l’intenzione di alterare gli equilibri sociali sedimentati.

Scrive Jean Sorel a proposito del potere catartico della violenza: “Si usano i termini ‘forza’ e ‘violenza’ parlando sia di atti di autorità sia di atti di rivolta. È chiaro che i due casi danno luogo a conseguenze assai diverse. A mio parere sarebbe estremamente vantaggioso adottare una terminologia che non dia luogo ad ambiguità e bisognerebbe riservare il termine violenza alla seconda accezione; diremo dunque che la forza ha lo scopo di imporre l’organizzazione di un certo ordine sociale nel quale governa una minoranza, mentre la violenza tende a distruggere tale ordine” (Jean Sorel, Riflessioni sulla violenza, 1908).

Scrive Michele Ronchi Stefanati in una bella e stimolante riflessione pubblicata da Lo Spallino [leggi qua]: “Un antidoto contro l’ipocrisia. Un’assunzione di responsabilità. Il racconto di un legame fraterno. (…) Al racconto di questa come di ogni violenza, si può reagire in due modi: con l’indignazione sterile da ‘anime belle’ o con la curiosità che permette di scoprirne le origini. Se si sceglie questo secondo atteggiamento ci si trova di fronte a vicende cariche di significati per quello che stiamo vivendo ora. Il Gruppo d’azione nasce nel mezzo degli anni ’80, quando i movimenti anticapitalisti e di liberazione del decennio precedente erano stati sedati e la restaurazione compiuta, per la gioia di ogni potere costituito. E’ allora impossibile non vedere nella violenza ultrà una continuazione di quella protesta libertaria, che ora avviene come confusa e generica ribellione all’autorità (…)”

Scrive Gandhi: “Per quanto possa condividere e apprezzare le degne motivazioni, sono un intransigente oppositore dei metodi violenti anche laddove vengono posti al servizio delle più nobili cause. L’esperienza mi convince che un bene duraturo non può mai essere frutto della menzogna e della violenza”.

Beh, se stare dalla parte di Gandhi significa essere “un’anima bella”, allora sì, mi dichiaro tale.
Anch’io ho subito la fascinazione intellettuale di Sorel, peraltro trasversale a destra e sinistra, come trasversale era la connotazione ideologica del Gruppo d’azione (“c’erano compagni e camerati”, ha ricordato Casolari durante un recente pubblico incontro al Murphy bar).

Ma sulla violenza non defletto e la considero un’inammissibile forma di sopraffazione, in tutte le sue manifestazioni, qualunque ne sia il presupposto.

Rilevo altresì che quella fisica non è l’unica – e talvolta forse neppure la peggiore – forma di violenza. E ammetto che la violenza fisica (nei casi estremi) possa apparire come l’unico mezzo per sottrarsi a peggiori violenze, soprusi o ingiustizie, per esempio la confisca della libertà. In tal senso, il tirannicidio, postulato persino dai Gesuiti, è giustappunto il ricorso ‘extrema ratio’ alla violenza per sottrarsi a un’intollerabile sopraffazione.
Però bisogna essere molto cauti: se si ammette una possibilità di deroga, tutto passa sotto il prisma dell’opinabilità e dunque in ultima istanza ogni eccezione è potenzialmente ammissibile perché giustificabile sotto il piano argomentativo. Dunque, preservare l’integrità del principio della nonviolenza impone la sua assoluta inviolabilità, senza eccezioni. Così almeno la penso io.

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Domani (venerdì 12) alla 17, del libro “Gruppo d’azione. Turbare l’ordine, creare il caos” si parlerà nella sala Agnelli della biblioteca Ariostea, nell’ambito di un’iniziativa organizzata da Ferraraitalia. A discuterne con gli autori – Alessandro Casolari e Filippo Landini – saranno il professor Giuseppe Scandurra studioso di antropologia culturale e docente all’Università di Ferrara; l’architetto Sergio Fortini vicepresidente dell’Ordine professionale di categoria, anch’egli docente a Unife, che fu in qualche misura partecipe delle vicende del gruppo; infine il direttore di Ferraraitalia, docente – pure lui all’ateneo ferrarese – di Etica della comunicazione.

Leggi la prefazione di Enrico Testa al volume Gruppo d’azione pubblicata da Ferraraitalia [vai]

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Sergio Gessi

Sergio Gessi (direttore responsabile), tentato dalla carriera in magistratura, ha optato per giornalismo e insegnamento (ora Etica della comunicazione a Unife): spara comunque giudizi, ma non sentenzia… A 7 anni già si industriava con la sua Olivetti, da allora non ha più smesso. Professionista dal ’93, ha scritto e diretto troppo: forse ha stancato, ma non è stanco! Ha fondato Ferraraitalia e Siti, quotidiano online dell’Associazione beni italiani patrimonio mondiale Unesco. Con incipiente senile nostalgia ricorda, fra gli altri, Ferrara & Ferrara, lo Spallino, Cambiare, l’Unità, il manifesto, Avvenimenti, la Nuova Venezia, la Cronaca di Verona, Portici, Econerre, Italia 7, Gambero Rosso, Luci della città e tutti i compagni di strada

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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