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(Pubblicato il 26 giugno 2015)

Chapeau agli istituti Gramsci e di Storia contemporanea di Ferrara per l’incontro di martedì 23 giugno dedicato all’enciclica di papa Francesco “Laudato si’ sulla cura della casa comune”, che porta la data del 24 maggio scorso.
Intense e profonde le riflessioni di Piero Stefani e Massimo Faggioli, cui va il merito di essere andati dentro il testo con competenza chirurgica.
Sta diventando una piacevole consuetudine quella dei due istituti ferraresi diretti da Fiorenzo Baratelli e Anna Quarzi, che stanno regalando a Ferrara momenti d’inusuale intensità e libertà, per essere realtà laiche, su temi e aspetti di carattere ecclesiale. Singolare l’appello in chiusura lanciato dallo stesso Baratelli alle parrocchie con vero fare pastorale e interessante la presenza nella strapiena sala del convento del Corpus Domini in città, di sacerdoti diocesani che hanno assistito all’incontro senza perdersi una virgola.
Non pretendo di mettere in fila i numerosi temi messi in luce, tante sono state le tastiere culturali (biblica, filosofica, storica, letteraria, teologica), tutte giocate con alta abilità solistica dai due studiosi ferraresi. Solo qualche personale, del tutto parziale, sottolineatura. È stato posto in evidenza il carattere non propriamente organico del testo, evidentemente risultato di diverse mani, ma una prima cosa che colpisce, almeno me, è una sensazione di particolare allarme e preoccupazione che papa Francesco trasmette sulle condizioni del creato.
L’autorevole indice è puntato su un sistema di sviluppo più volte chiamato “tecnoscienza” o “tecno-economico” e pressoché costantemente definito “irresponsabile”. Il termine ricorre ben sette volte nell’enciclica e sempre accostato al modello di crescita partorito dal ventre occidentale. Avrebbe potuto chiamarlo “sistema capitalistico”, se l’espressione non risentisse troppo di echi marxiani, con tutti i rischi del caso. Un paradigma dal quale secondo il pontefice occorre fuoriuscire prima che sia troppo tardi, perché il pianeta non potrà reggere a lungo gli attuali ritmi di sfruttamento delle risorse, i livelli di spreco e consumo compulsivo che sta generando e le drammatiche conseguenze che scarica sull’ambiente e, soprattutto, sugli esclusi, i poveri, gli ultimi.
L’ancoraggio filosofico di tale risoluta analisi è al pensiero di Romano Guardini in “La fine dell’epoca moderna” (1950), cui spesso seguono citazioni di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, verificabili nell’apparato delle note. L’impressione, come spiegato bene dai due studiosi ferraresi, è che il post-ideologico papa argentino si collochi nel solco di un pensiero magisteriale sostanzialmente negativo, o comunque fortemente critico, verso la modernità. Non nel senso che Francesco non parli di cose attuali, o non sia sufficientemente sintonizzato con i nodi cruciali del tempo presente, come hanno puntualizzato alcuni interventi durante il dibattito, ma perché l’impostazione e il portato essenziale della sua analisi lo conducono alla stessa severità di analisi e giudizio, quasi senza appello, dei suoi due predecessori.
Ne deriva un elemento di forte preoccupazione, angoscia e monito, che, di fatto, fa da contrappunto allo slancio di gioia e speranza che pure è presente nella sua predicazione (Evangelii Gaudium) e nella stessa enciclica. Una ferma opposizione verso una modernità del cuore vuoto della persona (“Abbiamo troppi mezzi per scarsi e rachitici fini”, n. 203), che si spinge fino a contemplare esiti di “decrescita”, perché si possa crescere in modo sano in altre parti del mondo (n. 193).
Non è forse la riproposizione del modello della “decrescita” un rientrare nel campo dell’ideologia da parte di un papa che ne pretende la definitiva fuoriuscita? La cifra di questo dilemma l’ha resa in particolare Faggioli. Le reazioni statunitensi al documento non sono state delle migliori e il prossimo viaggio a settembre di Bergoglio negli Usa potrebbe rivelarsi un problema.
Contrariamente alle apparenze, le critiche non vengono solo dal versante repubblicano, dalla destra, da teocon e tea party, ma più trasversalmente da una società che considera il proprio modello di sviluppo come espressione della cultura del “self made man”. Un sistema in buona parte riconducibile in radice sul doppio significato del termine tedesco “beruf” (lavoro-vocazione) che, si potrebbe dire weberianamente, sorregge eticamente (l’ascesi intramondana protestante) lo spirito del capitalismo.
In questo senso si apre una forbice fra l’impostazione-soluzione radicale di papa Francesco (non c’è altra strada che la fuoriuscita, prima possibile, dal modello della tecnoscienza) e le (eventuali?) soluzioni economiche, scientifiche, tecniche e politiche, per uno sviluppo più equo e sostenibile, in ottica certamente disintossicata dalla fiducia nell’inarrestabile linea retta del progresso.
In sostanza la domanda è: c’è ancora spazio per la razionalità (ecco la modernità) in tutto questo, o c’è solo il postmoderno lavoro della religione e della spiritualità, per quanto francescana, verso un’inversione di 180 gradi degli stili di vita? Del resto lo stesso Jürgen Habermas, da sinistra, scrisse già anni fa che fra i sistemi economici nessuno come quello occidentale ha prodotto ricchezza e benessere su così vaste dimensioni e fra gli esperti non c’è unanimità sulle valutazioni effettivamente positive della decrescita. Vengono in mente anche le parole di Edmondo Berselli nel suo libro postumo “L’economia giusta” (2010), il quale ricordava che alle nostre spalle c’è un passato di redistribuzione e di correzione delle ingiustizie firmato dalle migliori tradizioni di pensiero delle democrazie cristiane e delle socialdemocrazie europee. Su quanto di quel pensiero sia rimasto sulla carta è lecito discutere, ma rimane che quella elaborazione è parte importante della cultura continentale.
Un ultimo cenno merita la riflessione sui poveri, retrocessi nella storia, almeno recente, del magistero papale, da potenziale soggetto storico di riscatto sociale a semplice termometro dei disastri prodotti dal sistema della tenoscienza. Un punto sul quale non da ora Stefani richiama l’attenzione sulla predicazione di Bergoglio, che si ripresenta puntuale anche nella sua enciclica. Segno che nel puntiforme mondo globale e nella baumaniana società liquida i soggetti storici di riferimento sono tramontati e che è oggettivamente difficile individuare nuove forme di interlocuzione e di rappresentanza?
Il tema c’è tutto ed è aperto alla discussione libera, senza pregiudizi e disinteressata, come stanno proponendo con merito gli istituti Gramsci e di Storia contemporanea di Ferrara.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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