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Ogni anno, il 25 novembre, celebriamo la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, in memoria delle sorelle Mirabal, assassinate a bastonate proprio in questo giorno nel 1960, e divenute simbolo del maltrattamento fisico e psicologico di donne e bambine nel mondo. Un fenomeno odioso e intollerabile, diffuso in ogni angolo del mondo, e che, nonostante l’impegno sociale di tante donne e uomini, non accenna a scomparire, né a diminuire.

Ma guardiamoci in casa. Come siamo messi da noi, nel nostro civilissimo e culturalmente avanzato ‘Bel Paese’? Male, malissimo purtroppo. Perché in Italia ogni 72 ore una donna viene uccisa e ogni giorno 88 donne sono vittime di atti di violenza, una ogni 16 minuti. Nonostante ciò ancora esiste chi sottovaluta la gravità della situazione e chi, addirittura, contesta l’uso del termine femminicidio.

Esiste, In Italia, un evidente problema culturale mai veramente affrontato e quindi mai sconfitto. Nella nostra società, nell’anno domini 2019, sono presenti e fortemente radicati preconcetti e pregiudizi che molti della mia generazione, figlia degli anni ’60, ritenevano superati grazie alle lotte e ai sacrifici compiuti dalle nostre madri e dai nostri padri.

Ma vediamo ai dati misurabili e, pertanto concreti. Il recentissimo rapporto ISTAT – pubblicato ieri, in occasione della ricorrenza mondiale – individua gli stereotipi di genere maggiormente diffusi nel nostro paese:
“per l’uomo, più che per la donna, è molto importante avere successo nel lavoro” (32,5%);
“gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche” (31,5%);
“è l’uomo a dover provvedere alle necessità economiche della famiglia” (27,9%).
Fanalino di coda è “spetta all’uomo prendere le decisioni più importanti riguardanti la famiglia”, che viene indicato solo dall’8,8% degli intervistati.

Il 58,8% della popolazione tra i 18 e i 74 anni, senza particolari differenze tra uomini e donne, si ritrova in questi stereotipi, più diffusi al crescere dell’età – il 65,7% dei 60-74enni rispetto al 45,3% dei giovani – e tra i meno istruiti. Gli stereotipi sono più frequenti nel Mezzogiorno (67,8%), in particolare in Campania (71,6%) e in Sicilia, e meno diffusi al Nord-est (52,6%), con il minimo in Friuli Venezia Giulia (49,2%). Trattasi sempre di convinzioni che riguardano comunque almeno la metà della popolazione, percentuale elevatissima e pertanto inaccettabile, ovunque ci si sposti all’interno del territorio nazionale.

Estremamente significativo il dato della omogeneità nelle risposte tra gli intervistati dei due generi. Che denota il forte condizionamento sociale cui sono ancora oggi sottoposte le donne, fin da piccole, in famiglia così come in tutti gli altri luoghi di socializzazione presenti nell’ambiente in cui crescono. Un vero proprio imprinting inconsapevole che le educa alla rassegnazione, all’assopimento dei naturali istinti di autoaffermazione sociale e del desiderio di uguaglianza tra i generi, alla remissività. Che le autoconvince che sia giusto così, anche quando, e lo si vedrà analizzando le risposte inerenti il tema della violenza nella coppia, qualcuna è vittima di maltrattamenti fisici o psicologici. Il cosiddetto “ceffone che si sarà sicuramente meritata”, come recita il triste adagio “Quando torni a casa la sera, picchia tua moglie. Tu non sai perché, ma lei lo sa benissimo”. Spesso raccontato come una battuta, altro non è che la manifestazione di un ripugnante maschilismo estremamente diffuso in tutto il paese. Questo autoconvincimento forzato è altresì causa di un altro disgustoso fenomeno femminile cui tristemente assistiamo in questi giorni: la quasi totale mancanza di solidarietà femminile. Sempre più spesso sono infatti le donne le più accanite detrattrici ed accusatrici delle proprie simili, divenendo così inconsapevoli sostenitrici di un pensiero sessista che si tramanda, di generazione in generazione, di madre in figlia.

Infatti, così purtroppo affermano i numeri. Sul tema della violenza nella coppia, il 7,4% delle persone ritiene accettabile che “un ragazzo schiaffeggi la sua fidanzata perché ha civettato o flirtato con un altro uomo” e il 6,2% che in una coppia ci scappi uno schiaffo ogni tanto. È anche normale che un uomo controlli abitualmente il cellulare e/o l’attività sui social network della propria moglie/compagna secondo il 17,7% degli interpellati. L’Abruzzo e la Campania spiccano come le regioni con una maggiore tolleranza alla violenza compiuta all’interno della coppia, con un riscontro positivo rispettivamente del 38,1% del 35%. La Valle d’Aosta (17,4%) e la Sardegna (15,2%) le meno tolleranti, con percentuali però che sono, ahimè, ben lungi dall’essere trascurabili.

Ma perché gli uomini sono violenti con le proprie compagne? Le risposte sono terrificanti:
il 77,7% degli intervistati risponde perché le donne sono considerate oggetti di proprietà (di questi il fatto che l’ 84,9% siano donne e il 70,4% uomini è estremamente significativo);
il 75,5% perché fanno abuso di sostanze stupefacenti o di alcol
il 75% per il bisogno degli uomini di sentirsi superiori alla propria compagna/moglie;
per la difficoltà di alcuni uomini a gestire la rabbia è indicata dal 70,6%.
E si prosegue con le ipotetiche cause di violenza in famiglia. Il 63,7% della popolazione considera causa le esperienze violente vissute in famiglia nel corso dell’infanzia, il 62,6% ritiene che alcuni uomini siano violenti perché non sopportano l’emancipazione femminile, mentre è ancora alta ma meno frequente l’associazione tra violenza e motivi religiosi (33,8%).
Le percentuali elevatissime di condivisione delle probabili cause individuate dagli intervistati è evidenza di una sorta di pseudo-accettazione del fenomeno. Come se, pur riconoscendo la gravità di alcuni comportamenti, si volesse giustificare chi li mette in atto, dipingendolo come persona che opera sotto l’influenza di una sorta di un prestabilito meccanismo di causa-effetto a cui è impossibile sottrarsi.

Solamente il 64,5% della popolazione intervistata consiglierebbe ad una donna che ha subito violenza da parte del proprio partner di denunciarlo e, dato ancor più deprimente, solo il 33,2% di lasciarlo. Bassissimo il dato di chi consiglierebbe di chiedere aiuto rivolgendosi agli organismi/servizi/istituti preposti:
Il 20,4% della popolazione indirizzerebbe la donna verso i centri antiviolenza;
il 18,2% le consiglierebbe di rivolgersi ad altri servizi o professionisti (consultori, psicologi, avvocati, ecc.).
il 2% solamente suggerirebbe di chiamare il 1522 (Trattasi di un servizio pubblico promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Pari Opportunità. Un numero telefonico gratuito e attivo 24 h su 24 accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking). Tutto ciò denota sia poca conoscenza dei servizi di supporto esistenti, che una scarsa fiducia negli stessi.

Ora, chi è arrivato a leggere fino a questo punto si sentirà sicuramente avvilito, turbato, angosciato. Questo è nulla, in confronto a ciò che lo aspetta proseguendo la lettura. Arrivano i dettagli finali e più raccapriccianti. Dalle interviste effettuate emerge chiaramente che persiste il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita. Addirittura il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. In altre parole si nega l’esistenza della violenza sessuale, in quanto l’atto, di per sé è consensuale; in caso contrario la donna avrebbe potuto fermarlo in qualsiasi momento. Considerazione deprecabile tanto quanto l’atto in sé. Ed è assolutamente troppo elevata la percentuale di chi pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire: ben il 23,9% della popolazione lo dichiara tranquillamente. Il 15,1% inoltre è dell’opinione che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile. Insomma il “Se l’è andata a cercare” è più vivo che mai!

Ma non basta. Ecco sviscerati una serie di altri pregiudizi assolutamente inaccettabili che però tutti noi troppo spesso abbiamo occasione di ascoltare nelle cosiddette “chiacchiere da bar”, per strada, sul luogo di lavoro, ovunque, insomma. Sul totale degli intervistati:
il 10,3% è convinto che spesso le accuse di violenza sessuale siano false;
il 7,2% dice che “di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì”;
il 6,2% pensa che “le donne serie non vengono violentate”;
l’1,9% ritiene che non si tratta di violenza se un uomo obbliga la propria partner ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà.

Un quadro agghiacciante quello che si profila ai nostri occhi, e che non può e non deve essere sottovalutato. Una fotografia di una società che noi riteniamo evoluta, culturalmente e socialmente avanzata, ma che non è tale, almeno sotto il profilo delle differenze di genere e dei ruoli socialmente riconosciuti. Che, dati alla mano, sembra vivere una fase di profonda regressione rispetto ai risultati ottenuti in anni di lotte dalle nostre madri, dalle nostre nonne, e da tutte quelle donne coraggiose che, mettendo a rischio la loro incolumità fisica e il loro futuro, la loro intera vita, hanno saputo alzare la testa e dire no al condizionamento sociale, al pregiudizio, all’imposizione di stereotipi preconfezionati, all’obbedienza ignorante e silenziosa.

La strada da compiere per giungere alla parità di genere alla eliminazione degli episodi di violenza è ancora lunga e piena di ostacoli: pensavamo di essere quasi al traguardo e invece siamo ancora all’inizio. C’è ancora tantissimo da fare per ottenere il superamento di questi odiosi stereotipi. Operando in famiglia, nei luoghi di lavoro, nelle strade. Tutte e tutti insieme. Non possiamo sottrarci a questo impegno. Lo dobbiamo alle nostre madri e nonne, affinché il loro sacrificio non sia risultato vano. Ma lo dobbiamo anche alle nostre figlie, per garantire loro un futuro più dignitoso, giusto e soddisfacente. Parallelamente è necessaria un’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni. Implementare un numero verde di ascolto delle vittime di violenza è una iniziativa lodevole ma assolutamente insufficiente. Lo Stato, da buon padre di famiglia dei suoi cittadini, deve farsi promotore, attraverso le sue istituzioni, di un processo di profondo rinnovamento culturale. E lo deve fare a partire dalla istituzione madre, quella scolastica, e cioè quel sistema educativo e formativo dalle enormi potenzialità, spesso non sfruttate pienamente, che accompagna il percorso di crescita, fisica, intellettuale, cognitiva e morale, di ciascuno di noi, dalla prima infanzia fino all’età adulta. E proprio nella scuola occorre fare prevenzione, investendo in percorsi stabili di educazione alla non violenza, di apprendimento e condivisione dei concetti di rispetto e di uguaglianza, di valorizzazione delle differenze, di gestione delle emozioni e dei sentimenti. Coinvolgendo, ove possibile, famiglie, associazioni, centri giovanili sportivi, artistici e culturali. Cosi da costruire un tessuto sociale assente, o inadeguato, che favorisca un sano sviluppo dell’intelligenza emotiva dei giovani, affinché possano diventare adulti consapevoli e rispettosi.

Non abbiamo più alibi. Non possiamo più essere complici di tanta violenza.

[I dati riportati in questa nota sono tratti dal report “Gli stereotipi sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza sessuale – Anno 2018”, ISTAT, 25 novembre 2019.]

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Alessandra Tuffanelli


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