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Mai come in questo momento il linguaggio ha mostrato l’importanza della sua doppia funzione: quella di primo veicolo di informazione tra le diverse realtà nazionali, culturali e linguistiche che compongono la comunità globale e quella di strumento di comunicazione tra le persone coinvolte in questo dramma mondiale.
In tutte e due le sue funzioni la sua efficacia dipende dall’uso preciso o approssimativo che si fa del significato delle singole parole. Ha colpito la mia attenzione il fatto che la situazione in cui ci troviamo in questi giorni sia stata descritta usando la parola ‘guerra’; mi sono chiesta il perché di questa scelta e ho sentito la necessità di intervenire velocemente per frenarne l’uso che mi sembra scorretto e fuori luogo.
Infatti la guerra presuppone un nemico intenzionato a sopraffarci per sostituirsi alla nostra capacità di governo di una società e di un territorio, sottintende una volontà decisionale e una strategia di scelte e di comportamenti coordinati a raggiungere questo scopo.

Il virus non corrisponde a nessuna di queste caratteristiche; prima di tutto non è un essere vivente e perciò non ha volontà propria, né una conseguente strategia di comportamenti coordinati nel tempo. Non può quindi essere considerato un nemico, è un evento tra i tanti che la vita ci propone; certamente è inaspettato ma, come tutti gli eventi della nostra vita, possiamo vederlo come un ostacolo o come un’opportunità.
Se lo leggiamo per quello che è, cioè un virus che ha espresso potenzialità pandemiche, lo possiamo studiare come fenomeno che mette in evidenza i nostri punti deboli, sia come civiltà che come esseri biologici che vivono in relazione e in continuo movimento.
Possiamo considerare l’esperienza della guerra per poter fronteggiare il problema economico che questa pandemia ci sta procurando e ci procurerà; per adottare le misure necessarie a superarlo. Questo è l’unico ambito in cui trovo utile rifarsi all’immagine della guerra, per il resto dovremmo usare questo evento come un’occasione utile a cambiare e rendere la nostra società migliore e capace di sviluppare la nostra umanità.

Le criticità che ha messo in evidenza sono l’aver ridotto a merce la vita umana e le sue opere, il nostro considerare la creazione come un pozzo di San Patrizio dal quale attingere a piene mani, senza preoccuparsi di esaurirne le risorse, quando invece è il nostro patrimonio e lo dobbiamo valorizzare per restituirlo migliorato, come nostra eredità, alle generazioni future.
La società consumistica non ha usato gli strumenti di collegamento (strade, città, trasporti) per qualificare le relazioni umane, ma per accumulare profitto e così ha contribuito a squilibrare la distribuzione della popolazione sul territorio. Questo ha prodotto, oltre al degrado ambientale, anche un impoverimento della qualità della vita e delle relazioni interpersonali.

Dobbiamo tornare a mettere al centro la qualità della vita dell’uomo che ha bisogno di armonia con gli altri esseri umani e con l’ambiente. Quindi riacquistare il valore del territorio che rifletta quell’armonia e che produca una società capace di far convivere le proprie molteplici diversità e bisogni con la cura e il rispetto del paesaggio.

Questa crisi sanitaria ha messo in evidenza che una società democratica deve mettere al centro lo sviluppo sociale, quindi il servizio alla salute, con ospedali e presidi sanitari distribuiti sul territorio e accessibili a tutti. L’aver concentrato questi servizi in poche mega-strutture ha aggravato la situazione. Per mantenere una società che sia democratica e che si sviluppi, bisogna occuparsi della sua salute fisica nonché sostenere e sviluppare la qualità umana che passa attraverso la coscienza di sé’ e quindi la possibilità di avere strumenti culturali e di informazione.

Avendo diminuito di oltre due terzi, gli investimenti per l’organizzazione della sanità pubblica, fa emergere l’errore di finalizzare la scienza al profitto, e di sottomettere la conoscenza alle leggi di mercato: come se la cultura fosse un prodotto industriale. Il risultato è che si impoverisce il territorio, l’ampiezza e la complessità della conoscenza si riduce a poche specializzazioni e se ne tarpano gli imprevedibili sviluppi – espressione di creatività umana – e per giunta ci fa trovare anche impreparati agli imprevisti che la vita ci riserva Infatti, la vita è complessa e non specializzata.  Abbiamo tutti sotto gli occhi che i tagli alla sanità hanno portato ad una grave carenza di strutture, di strumenti tecnologici e soprattutto di personale competente e qualificato. Non solo, introducendo il numero chiuso nell’università e nei corsi di specializzazione, ci troviamo a non disporre di sufficiente personale di assistenza. Di questo è testimone la drammatica scarsità di medici e infermieri che si riscontra oggi e l’impossibilità di rispondere all’appello d’aiuto che la popolazione esprime nonostante gli indicibili sforzi e l’impegno che il personale sanitario sta esprimendo a livello di coscienza individuale.

I tagli ancora più vistosi alla scuola pubblica, all’università e alla ricerca tolgono la possibilità di rispondere alle nuove sollecitazioni dell’evoluzione tecnologica attraverso la ricerca e la scienza. Ancor più grave, risparmiando sull’educazione si rischia di tornare a una società primitiva che risolve le tensioni sociali con la violenza; si crea insoddisfazione e si riduce la capacità creativa dell’essere umano, il solo strumento che ci permette di superare le difficoltà.

Affrontare questa situazione come opportunità significa cogliere l’occasione di ricostruire una società che si fidi del cittadino e che dunque non abbia bisogno di creare tutte quelle procedure burocratiche finalizzate al controllo e che non consideri le persone incapaci di intendere e di volere o disoneste per natura.

Questo atteggiamento ha prodotto una pletora di leggi e divieti che complicano il funzionamento e la creazione di realtà produttive. Hanno reso l’accessibilità ai servizi complicata e antieconomica, che causa corruzione e che consente di aggirare le norme stabilite. Ancora più grave, ha abituato il funzionario pubblico a non assumersi la responsabilità del proprio ruolo, limitandolo soltanto a un esercizio di potere o oppositivo o discrezionale anziché valorizzarlo come elemento necessario a un servizio pubblico.

Insomma, se usiamo la parola “guerra” per caratterizzare questo momento storico, di nuovo perdiamo l’opportunità di cambiare, ripetiamo la solita storia. Dobbiamo smettere di pensare ‘contro’ e iniziare a pensare per creare e utilizzare questo tempo come l’occasione per correggere gli errori fatti e progettare un futuro che qualifichi la vita umana e le sue relazioni, che consideri l’ambiente come un luogo adatto ad esprimere tutta la nostra potenzialità creativa e a soddisfare il nostro gusto di vivere. Allora tutto il dolore di questo tempo non sarà stato inutile e potremo continuare a costruire la nostra storia fino a trasformare la società in comunità e la terra in un Paradiso terrestre.

                                                                         

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Grazia Baroni

Grazia Baroni, è nata a Torino nel 1951. Dopo il diploma di liceo artistico e l’abilitazione all’insegnamento si è laureata in architettura e ha insegnato disegno e storia dell’arte nella scuola superiore durante la sua trentennale carriera. Ha partecipato alla fondazione della cooperativa Centro Ricerche di Sviluppo del Territorio (CRST) e collaborato ad alcuni lavori del Centro Lavoro Integrato sul Territorio (CELIT). E’ socia e collaboratrice del Centro Culturale e Associazione Familiare Nova Cana. Dal 2016, anno della sua fondazione, fa parte del gruppo Molecole, un momento di ricerca e di lavoro sul bene, per creare e conoscere, scoprendo e dialogando con altre molecole positive e provare a porsi come elementi catalizzatori del cambiamento. Fra i temi affrontati dal gruppo c’è lo studio e dibattito sulla Burocrazia, studio e invio di un questionario allargato sulla felicità, sul suo significato e visione, lavori progettuali sulla felicità, in corso.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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