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Siamo avvezzi o propensi più di sempre alla protesta e alle lamentele o siamo diventati animali cosi liberi da mal sopportare o rifiutare la cattività imposta da effettive situazioni di emergenza?
Ci dimeniamo tra Dpcm in continua evoluzione che dettano la scansione della nostra quotidianità, didattica a distanza e ogni altra modalità di smartworking, lockdown parziale, coprifuoco  (ormai perfino i nonni ultraottuagenari riconoscono l’esatto significato di queste espressioni), osservando le regole intransigenti che riguardano le nostre pratiche sportive, i nostri incontri familiari e amicali, limitando o escludendo libertà di movimento a seconda del contesto.
Sfoghiamo la nostra frustrazione sui social con invettive al governo, ai sindacati, ai conduttori televisivi, ai giornalisti, ai medici che ci presentano le loro tesi nelle ospitate dei programmi generalisti o nei talk, quando non aggrediamo chi incontriamo con la nostra verbosità contro il Covid-19, le nostre saccenti affermazioni, le banalità che ormai riempiono la bocca e la vita di tutti.
Non ricordiamo che nella storia passata e più recente le misure di contenimento hanno segnato più generazioni e non siamo certamente noi a sperimentare per primi un controllo imposto sui nostri movimenti. Il coprifuoco non riguarda solo ed esclusivamente le condizioni di epidemia: in epoca recente, nel 2008, fu decretato in alcuni Stati americani dell’Unione all’avvicinarsi degli uragani Gustav e Ike mentre in Belgio (2016) e a Boston (2016) fu applicato dopo gli attentati terroristici a Bruxelles e durante la Maratona bostoniana.  ‘Coprifuoco’ è una parola dal sapore antico e sinistro che trova origine nel Medioevo: ‘coprire il fuoco’ significava dargli meno vigore o spegnerlo per prevenire gli incendi all’interno delle abitazioni, oppure evitare assembramenti notturni attorno ai falò nelle strade e nei luoghi di ritrovo.
Durante la peste di Londra (1665-1666) vennero sbarrate le uscite delle case in cui si rilevavano casi di peste e severamente sorvegliata ogni via di fuga per impedire ai parenti sani di diffondere ulteriormente il morbo. Le torce, sparse in tutta la città, bruciavano giorno e notte per purificare l’aria e venivano bruciate spezie per attutire l’odore mefitico della morte. L’epidemia provocò circa 100.000 morti nella sola Londra, 1/5 dei cittadini, con mille e più morti al giorno nel periodo di maggior virulenza, cifre andate calando fino a scomparire, nell’arco di un anno.
Nel 1700 l’Europa fu risparmiata dalle epidemie grazie al ‘cordone sanitario’ costituito dalla frontiera militare asburgica, la massima struttura strategico sanitaria d’ogni epoca, che percorreva 1850 km tra Adriatico e Carpazi. Chiusura e sospensione di ogni attività vennero prescritte durante l’epidemia di  influenza Spagnola (1918-1919) e lasciarono il segno nell’animo e nelle condizioni di vita dell’intera popolazione mondiale. In Italia, il primo allarme avvenne a Sossano (Vicenza) nel settembre del 1918 e il sindaco del paese stabilì la chiusura delle scuole, delle fabbriche e delle attività pubbliche pensando a un’epidemia di tifo, che ben presto si rivelò per ciò che conosciamo. Al culmine, chiuse perfino l’ospedale. Sparì il 70% della popolazione.
Nel luglio 1943 in Italia venne dichiarato l’ultimo coprifuoco prima della nostra epoca. Badoglio era succeduto a Mussolini e fu dichiarato lo stato d’assedio, con l’istituzione del Commissariato Militare in tutte le città. Fu ordinata la chiusura di ogni locale pubblico dalle 20.00 alle 6.00 del giorno dopo e l’ordine, in vigore fino all’anno successivo, fu modificato più volte nel numero di ore di chiusura.
Durante l’epidemia di Ebola che dilaniò l’Africa Occidentale dal 2013 al 2016, gli agglomerati urbani divennero zone deserte, le popolazioni sottoposte al divieto di uscire e a controlli a tappeto, nell’intento di dare caccia ai contagiati. I sospettati di diffondere la malattia vennero portati in tribunale e vennero applicate pene severissime a chi proteggeva i malati. In tutti i Paesi venne dichiarato il coprifuoco e Freetown, capitale della Sierra Leone ed epicentro dell’epidemia, divenne una città fantasma.
E siamo qua, 2020, con il nostro iter di sacrificio, i momenti alterni di chiaro-scuro, le illusioni passeggere dell’apertura estiva e la pesantezza della chiusura autunnale. Guardiamo a un futuro  non delineato dalle certezze, tutto da intraprendere, nell’aspettativa di vedere la fine della ‘nostra peste’ e uscire dalla nostra gabbia di paure con spiragli di serenità, pessimismo con spicchi di speranza. Responsabilmente. Oggi tocca a noi.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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