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“Il 3 giugno 1963 moriva il Santo Padre Giovanni XXIII che, illuminato dallo Spirito, ebbe il coraggio di annunciare e aprire il Concilio Vaticano II, primavera della Chiesa. A lui affido l’inizio del mio ministero episcopale”.
Con questa parole ha esordito il nuovo arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Gian Carlo Perego, il giorno del suo ingresso a Ferrara, il 3 giugno scorso.
Parole pronunciate al termine della sua prima omelia in cattedrale, che già delineano l’impronta di un vero e proprio programma pastorale.

Il riferimento all’assise svolta tra l’ottobre del 1962 e il dicembre 1965, non si limita infatti al pontefice che lo convocò e che lo aprì con lo storico discorso ‘Gaudet Mater Ecclesia’.
Prendendo spunto dalla festa di Pentecoste, fra le più importanti del calendario liturgico della Chiesa cattolica, mons. Perego ha esortato a “vivere dentro la città, a condividere le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce, soprattutto dei più deboli”. Citazione letterale della Costituzione pastorale ‘Gaudium et Spes’, approvata in concilio l’8 dicembre 1965. Se si considera poi che ‘Gaudium et Spes” sono anche le parole che Perego ha scelto come suo motto episcopale, si fa chiara la traccia di un percorso iniziato con l’evidente volontà di caratterizzarlo con una precisa punteggiatura.
Un’intenzione ulteriormente rafforzata dal fatto che il sottotitolo di quel documento conciliare, ‘La Chiesa nel mondo contemporaneo’, apparve fin da subito il segno di quel “balzo innanzi” auspicato da papa Roncalli solo dieci giorni prima di morire, a concilio iniziato. Fu chiaro a tanti che usare l’espressione “La Chiesa nel mondo”, anziché dire “La Chiesa e il mondo”, significava un cambio di passo per un’istituzione che per lungo tempo si era rapportata al proprio tempo in termini oppositivi, se non di condanna.
Quel “vivere dentro la città” usato da mons. Perego, pare proprio l’eco di una Ecclesia che, roncallianamente, vuole essere Mater oltre che solo maestra.
E l’accenno a una terminologia che richiama più il contesto famigliare rispetto alla cattedra, esce rafforzato anche dalle attese del vescovo di Bologna, Matteo Zuppi, nel corso della stessa celebrazione: “Siamo tutti migranti, nella vita come nella fede. Abbiamo bisogno di una guida e si spera che tu possa essere il nostro papà”.

Ma i riferimenti al Vaticano II nella prima omelia del nuovo arcivescovo di Ferrara-Comacchio non si fermano qui.
Esplicita è stata infatti la citazione della ‘Sacrosanctum concilium’, ossia la Costituzione liturgica che il concilio approvò al termine della prima sessione, il 22 novembre 1963, che papa Giovanni XXIII fece in tempo a vedere.
Breve, ma sufficientemente chiaro, è parso il passaggio che mons. Perego ha usato in questa parte della sua omelia: “Anzitutto l’impegno di strutturare la nostra vita di fede (…) sui segni della grazia (i sacramenti)”.
Ancora oggi c’è chi tende a leggere il primo documento approvato dal Vaticano II riconducendolo a una sorta di rinnovata disciplina nello stretto ambito rituale e liturgico, anche se da qui partì l’innegabile svolta della messa celebrata non più spalle ai fedeli e non più in latino.
Ciò che ancora stenta a essere recepito pienamente è il contenuto ecclesiologico di quel documento. Lo ha scritto molto bene lo storico Massimo Faggioli nel suo libro giustamente intitolato ‘Vera riforma’ (Edizioni Dehoniane, 2013). Il diverso modo di celebrare i santi misteri rispetto al passato non è solo una nuova forma strettamente ritualistica, ma l’espressione coerentemente consequenziale di una Chiesa che teologicamente (ecclesiologicamente) si comprende a partire dal suo essere comunità, prima ancora di essere strutturata gerarchicamente.
E questa consapevolezza le deriva dal fatto che tutti i suoi membri sono innanzitutto, e prima ancora di ogni differenza, santificati dall’acqua del battesimo e resi una cosa sola dal pane eucaristico.
Ecco dunque i segni della grazia, cioè i sacramenti, di cui parla Perego, cui fare “anzitutto” riferimento.
E’ l’economia misterica e sacramentale che affiora come un unico e distinto filo conduttore in tutti i documenti conciliari e che trova nella Sacrosanctum concilium una chiarezza espositiva tanto esemplare quanto tuttora non pienamente percepita. Una consapevolezza tutta teologica, quindi, che porta la Chiesa a sentirsi comunità (famiglia), piuttosto che societas perfecta, istituzione gerarchica.
A sentirsi innanzitutto, tutta intera, convocata e dipendente dalla grazia divina, prima ancora che muscolarmente in possesso delle verità dottrinali.
Esattamente su questo punto si dipartiva la riflessione conciliare del duo Lercaro-Dossetti sulla Chiesa povera, secondo una concezione della povertà essenzialmente teologica e sulla base della quale la Chiesa si ricomprende (ecclesiologicamente) a partire dai suoi tesori sacramentali (la grazia), piuttosto che mondani.
Forse in questa chiave va letto anche lo sguardo che rivolge mons. Perego da vescovo alla Chiesa di Ferrara-Comacchio, “in cui entro – ha detto nella stessa omelia d’ingresso – in punta di piedi”.
Non sono parse parole di facile modestia, ma la coerente espressione posturale di chi ha aperto consapevolmente cuore e mente al soffio del concilio.

C’è chi non ha trattenuto un velo di delusione dal mancato riferimento nella sua prima omelia al tema migranti. Era da alcuni atteso, visto che mons. Perego è stato preceduto a Ferrara dal suo incarico di direttore generale della Fondazione Migrantes (organismo della Cei). Magari per iniziare a solcare delle differenze, partendo da chi lo ha preceduto.
Se però questa, pur parziale, lettura delle parole del suo ingresso non è una forzatura del loro senso, anche l’aspetto dei migranti pare chiaramente ricompreso all’interno di una più ampia visione teologica e pastorale, che fin dalle prime battute sembra affermarsi come una vera e propria bussola generale di marcia. Quasi a voler dire che la sua azione non sarà connotabile in un aspetto, un ambito sociologico, per quanto rovente, ma pur sempre settoriale (e facile preda di fronti polemici), per essere teologicamente e pastoralmente un “papà” di tutti, a partire dai più deboli.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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