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“L’economia non è una scienza esatta”.  Il Medioevo, il mercantilismo, il liberismo, il socialismo, il comunismo, la scuola austriaca, le teoria neoclassica, l’economia Keynesiana, hanno storicamente dimostrato che in economia a diversi fini e diversi scopi, corrispondono differenti leggi e dinamiche. L’Unione Europea e l’Eurozona sono frutto dell’incomprensione di questo “relativismo economico” e proprio l’incapacità di comprendere il carattere mutevole dell’economia ha portato al più grande disastro dal dopoguerra. Un’incomprensione che ha radici profonde storiche da analizzare. E’ necessario accantonare la tanto acclamata quanto ingenua idea secondo cui l’Unione Europea è derivata dal volere popolare e dal “senso comune europeo”, in realtà il progetto dell’Unione Europea è proprietà dell’elité finanziaria e industriale statunitense e nordeuropea che a metà degli anni quaranta pianificò il rafforzamento del capitalismo globale.

Anche di questo si è parlato lunedì alla sala Estense a “L’altra faccia della moneta”, incontro organizzato dal ‘Gruppo di cittadini per l’economia’, un’aggregazione informale e spontanea che da tre anni cerca di colmare quella pericolosa ‘asimmetria informativa’ tra chi sa tutto e chi invece poco o nulla conosce delle dinamiche macro economiche. Una parte fondamentale della conversazione civile è stata dedicata proprio all’analisi della natura e della funzione dell’economia.

Il punto cruciale focalizzato è che non esiste in economia qualcosa che corrisponda alla legge di gravitazione universale e ancor meno un concetto che abbia valenza universale nei diversi contesti storici e culturali. Per questo la riflessione dell’economista e le coerenti risoluzioni economiche diventano estremamente complesse: non esistendo principi economici universali l’economia, strettamente collegata all’azione della politica, si è sviluppata nel corso della storia attraverso azioni estremamente diverse tra loro. Con questa eloquente premessa ha avuto inizio la lunga serata – iniziata alle 20.30 e conclusa pochi minuti dopo la mezzanotte.

L’economia è dunque riconducibile al novero delle cosiddette “scienze sociali” e come tale è condizionata da variabili culturali, contestuali e orientata coerentemente al fine di volta in volta perseguito. Se ad esempio il liberismo ha teorizzato e applicato i principi di libero mercato, di massimo profitto e di possibilità di azione marginale da parte dello Stato, il comunismo ha concepito un’economia che prevede il soddisfacimento di tutti i bisogni fondamentali dell’uomo, ma che implica la cessione allo Stato di una parte della libertà dell’individuo; da questa convinzione viene l’abolizione della proprietà privata e l’eliminazione del principio di libero mercato.

Ma l’Unione Europea, e ancor di più l’Eurozona che ne è l’espressione puramente finanziaria, è – a prescindere – un progetto antistorico: come mettere insieme la Grecia e la Finlandia, l’Italia e la Germania? Paesi estremamente diversi e con specificità inconciliabili, quali la lingua, la cultura e, nel caso particolare che stiamo trattando, la politica economica. Basti pensare alla situazione esemplare dell’Italia fino al 1980 (l’anno del divorzio fra ministero del Tesoro e Banca d’Italia) in cui veniva applicata una politica monetaria espansiva e quando lo Stato aveva un diretto controllo sul proprio credito, e quindi sulla propria banca centrale. Pensate all’assurdità dell’idea di vincolare l’Italia alle regole della politica economica propria della Germania. E’ emblematico il fatto che in lingua tedesca la parola “debito” sia Schuld, termine che sta ad indicare anche la “colpa”; ciò mette in luce la radicata eredità luterana e protestante nella società tedesca. Capire questi presupposti ci fa comprendere che nulla in economia avviene per “disgrazia divina”, al pari delle piaghe d’Egitto.

La situazione in cui i Paesi europei, chi prima e chi dopo, stanno progressivamente sprofondando, è logica conseguenza dell’applicazione di politiche economiche di austerità, l’inserimento del pareggio di bilancio in costituzione, la cessione della sovranità monetaria. La scelta, non certo determinata da consultazioni popolari attraverso i mezzi democratici, ha arricchito i maggiori speculatori internazionali, i cosiddetti “squali” della finanza. La politica economica attuale, che continua ad essere proposta dalle forze di governo di quasi tutti gli stati aderenti all’Eurozona, ha privilegiato chi fondamentalmente non produce alcun bene e scommette su numeri in un computer (speculatori e colossi finanziari), danneggiando fatalmente il lavoratore. Solamente smascherando chi sostiene una politica di austerità e di privatizzazione e continua a sostenere che il fine ultimo delle sue politiche è il “bene comune”, solamente smascherando questi uomini e donne – fantocci nelle mani di potenti lobby – si diventa lucidi e capaci di impostare una politica economica e monetaria diversa.

Senza ipocrisie e senza mistificazioni è necessario ammettere che l’unica dottrina economica che garantisce il “bene comune” è quella che nel lavoro non riconosce una merce, bensì la vera ricchezza e il mezzo fondamentale attraverso cui distribuire la ricchezza. Per permettere che questo sia, dobbiamo considerare la moneta un semplice mezzo (fiat money) in grado di permettere lo scambio di lavoro. La moneta non è quindi la vera ricchezza, paragonabile ad una vera e propria merce (come i mercati, la Borsa come i ‘liberali’ vogliono far credere), tant’è che durante il cosiddetto “comunismo di guerra” nel periodo post-rivoluzionario russo la moneta era stata abolita.

La moneta finalmente sovrana deve essere emessa per monetizzare l’operosità di una comunità. Con l’euro l’Italia è stata punita perché troppo operosa: nel sistema dell’Eurozona ad ogni prestito che la Bce (istituto creditizio privato) concede ad una nazione corrisponde un tasso d’interesse arbitrario, che varia cioè a seconda del Paese richiedente. Se analizziamo il bilancio dello Stato italiano dal 1990 al 2011 (anno di insediamento del governo tecnico Monti) risulta evidente come il bilancio dello Stato sia in attivo (surplus primario, cioè senza considerare interessi attivi e passivi); comparando a questo dato l’ammontare del valore effettivo degli interessi sul debito si noterà come questo superi di misura il surplus primario del bilancio statale. Il “nostro” debito è quindi pressoché totalmente composto da interessi sul debito (attualmente in media circa 70-80 miliardi all’anno).

Siamo ora in grado di carpire il significato genuino e rivoluzionario della frase che il pensatore statunitense Ezra Pound pronunciò durante un ciclo di conferenza all’Università Bocconi di Milano nel 1933: “Dire che un governo non ha soldi per fare opere pubbliche è come dire che un ingegnere non ha abbastanza chilometri per progettare autostrade”: capendo questo principio capiamo la grande bugia della classe dirigente e la condanna a cui ci siamo sottoposti cedendo di fatto la sovranità monetaria ad un ente ‘estero e privato’ come la Banca centrale europea.

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Fabio Zangara


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