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Oggi più che mai è doveroso trattare, all’interno del dibattito democratico e civile, delle nuove dinamiche economiche e delle problematiche correlate alle attuali politiche monetarie.
L’obiettivo è quello di eliminare il concetto, più volte ribadito nel corso dello studio delle dinamiche macroeconomiche, dell’asimmetria informativa, la condizione per cui nella società molti non sanno niente mentre pochi sanno tutto. Questa è la condizione ottimale per un sistema di potere che si autoalimenta proprio grazie all’ignoranza dell’opinione pubblica e alla durevolezza di un regime fondato sui luoghi comuni, in cui argomento di dibattito non sono analisi di dati e documenti ma chiacchiericcio riguardante frasi riportate per sentito dire e ‘gossip’ politico.

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Marco Cattaneo

A questo proposito abbiamo interpellato Marco Cattaneo, laureato in Economia aziendale (Bocconi 1985). Dal 1995 è consulente aziendale, gestisce fondi e rappresenta primari investitori internazionali in operazioni di ‘private equity’. Ha scritto alcuni libri su temi economici e cura i contenuti del blog Basta con l’Eurocrisi, dove è possibile leggere le sue analisi sull’attuale meccanismo economico europeo.

Non è facile oggi per i cittadini avere gli strumenti per comprendere le origini della crisi economica che ha investito l’Eurozona già da diversi anni. Molti analisti economici ed esponenti politici insistono nell’indicare il principale fattore della crisi economica negli sprechi che aumentano il debito pubblico e nella cattiva gestione dello Stato. Che lettura dà lei della situazione e di queste analisi?
Sulla qualità di gestione della spesa statale esistono molti aneddoti e molti luoghi comuni, su cui ci sarebbe parecchio da discutere. La singola maggiore voce di spesa pubblica in Italia è il sistema sanitario, che è considerato uno dei cinque più efficienti al mondo dall’Organizzazione mondiale della sanità. Possibile che tutto il resto del settore pubblico italiano sia una tale sciagura da renderlo la palla al piede dell’economia?
Il punto su cui riflettere, però, è che gli indicatori economici italiani si sono pesantemente e improvvisamente discostati, in peggio, da quelli (per esempio) del Regno unito a partire da metà 2011. La spesa pubblica italiana non è improvvisamente diventata meno efficiente in quel periodo: sono invece stati attuati forti incrementi di tassazione, mentre gli inglesi – dotati della loro moneta – continuavano, al contrario, a supportare la ripresa della loro economia.
Quanto al debito pubblico italiano, il 99% del problema non è relativo al suo livello, ma all’essere contratto in una moneta – l’euro – che per l’Italia è a tutti gli effetti una valuta straniera. L’austerità è stata imposta da Ue e Bce come condizione per garantire il debito pubblico: ma se il debito fosse rimasto in lire, non ci sarebbe mai stato un rischio d’insolvenza – una banca centrale nazionale è sempre in grado di garantire il rifinanziamento del debito in moneta propria. E in una fase di domanda depressa (conseguenza della crisi finanziaria mondiale del 2008, i cui effetti non erano ancora stati sanati) questo è possibile senza che inflazione e tassi d’interesse vadano fuori controllo.

La moneta è unita di misura dell’operosità in termini di quantità, qualità e valore. Prima dell’euro, la moneta era fondamentalmente gestita dallo Stato. Oggi l’euro, come da lei accennato, è gestito da una banca sostanzialmente privata che presta denaro agli stati a debito e con interessi. Quali conseguenze ha portato questo cambio strutturale ?
Uno Stato che emette la propria moneta è in grado di utilizzarla per attuare azioni di espansione della domanda – meno tasse, più spesa pubblica, più sostegni alla spesa privata – in modo da superare fasi di depressione della domanda conseguenti, per esempio, a crisi del mercato finanziario. Se la moneta deve invece essere presa a prestito, proprio nei periodi di difficoltà economica questo può risultare impossibile, o troppo oneroso. La crisi di molti paesi dell’Eurozona è in larga misura una risultante di questa situazione.

Quali effetti hanno avuto le manovre ‘di salvataggio’ attuate dalla Banca centrale europea, come il Quantitative easing (Qe), messo in campo da Draghi all’inizio del 2015, nel rivitalizzare l’economia reale dei paesi aderenti all’Eurozona?
Il Qe, che ha fatto seguito a una serie di azioni di garanzia dei debiti pubblici intraprese a partire dal 2012, ha prodotto due fenomeni: il calo dei tassi d’interesse pagati dagli stati, e l’indebolimento dell’euro, soprattutto rispetto al dollaro. Il calo dei tassi tuttavia non si è tradotto in una spinta al potere d’acquisto disponibile per aziende e cittadini, in quanto la Ue non ha smesso di richiedere azioni di riduzione dei deficit pubblici – che, in una situazione di economia depressa, implica di continuare a sottrarre risorse all’economia reale.
L’unico effetto positivo degno di nota è legato alla svalutazione dell’euro. Le aziende italiane che esportano nell’area del dollaro stanno traendone alcuni vantaggi. Siamo ben lontani, tuttavia, da quanto occorrerebbe per avviare un significativo recupero dei pesanti danni subiti dall’economia italiana dal 2008 in poi, anche perché metà del nostro interscambio estero si svolge all’interno dell’Eurozona.

Quali decisioni, secondo lei deve, prendere il governo italiano per dare un nuovo impulso all’economia nazionale e per far uscire il nostro Paese dalla spirale recessiva in cui è impantanato (meno lavoro, meno stipendi e meno consumi)?
Il governo italiano dovrebbe attuare azioni di espansione della domanda interna, e nello stesso tempo favorire il recupero di competitività delle aziende italiane, in primo luogo riducendo la tassazione e gli oneri accessori sui costi di lavoro. Questo è impedito dai trattati di funzionamento dell’eurosistema. In assenza di un accordo politico che porti alla loro revisione, il superamento della crisi richiede azioni unilaterali da parte dei Paesi in difficoltà. La rottura dell’euro, con uscita dal sistema di singoli Paesi, è uno scenario possibile, che presenta però forti complessità politiche e operative.

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La proposta di Cattaneo, frame da un video esplicativo

La via che personalmente sto sviluppando e promuovendo, insieme a un gruppo di economisti e ricercatori, è l’introduzione di Monete fiscali nazionali. Vari Paesi potrebbero introdurre Certificati di credito fiscale (Ccf), cioè titoli utilizzabili per pagare tasse e imposte future nel territorio dello stato emittente, e assegnarli gratuitamente a cittadini e aziende. Non sono debito perché lo stato emittente non è obbligato a rimborsarli; hanno un valore di mercato e possono anche essere utilizzati in transazioni dirette tra privati. Hanno quindi alcune caratteristiche della moneta – pur non essendo moneta ai sensi di legge – e ridarebbero ai singoli Stati le leve di politica economica oggi necessarie, da applicare in forme e misure differenziate in funzione delle esigenze specifiche di ogni Paese. L’azione espansiva prodotta dalla distribuzione di Ccf rilancia domanda, Pil, occupazione e gettito fiscale, il che evita il riformarsi di squilibri fiscali quando, in futuro, i Ccf arriveranno a scadenza.
E’ una strada che comporta una forte revisione dei meccanismi di funzionamento dell’eurosistema. Non è però deflagrante: l’euro continua a esistere come moneta circolante e come valuta di conto in tutta l’Eurozona. E si evitano quindi le grandi complicazioni connesse a un processo di rottura della moneta unica.

La vicenda greca sta evidenziando le criticità del sistema euro. Ritiene che queste dinamiche possano presto coinvolgere altri Paesi dell’Eurozona? Quale scenario ipotizza per Grecia e agli altri stati più deboli membri dell’Eurozona?
Il governo Tsipras, vinte le elezioni del 25 gennaio 2015, ha sottoposto alla Ue alcune proposte, per la verità ragionevoli e moderate (forse addirittura troppo, nel senso che rischiavano di essere insufficienti, a mio avviso). In pratica, una riduzione (rispetto alle richieste Ue) del surplus primario del bilancio pubblico e un riscadenziamento del piano di rimborso del debito.
La Ue ha però reagito con un atteggiamento di totale chiusura, non manifestando alcuna concreta disponibilità a rivedere le fallimentari politiche di austerità imposte alla Grecia da fine 2011 a inizio 2015.
Il governo Tsipras non vuole forzare l’uscita della Grecia dall’Eurozona. Dato questo presupposto, l’introduzione di una Moneta fiscale greca in affiancamento all’euro potrebbe essere la soluzione appropriata. La Grecia dovrebbe adottarla unilateralmente, senza “rompere” l’euro, e usarla per attuare le necessarie azioni di rilancio della propria economia. Sempre unilateralmente, dovrebbe sospendere i pagamenti delle rate di debito dei prossimi mesi, proponendo un nuovo piano di rientro con scadenze posposte (non necessariamente di molto).
Il pallino passerebbe nelle mani di Ue e Bce: che potrebbero reagire forzando la rottura, eventualità che sarebbe però – dal loro punto di vista – autolesionista. Oppure accettare il nuovo status quo, prendendo atto che consente l’avvio a soluzione della crisi greca. Va sottolineato che proprio il rilancio dell’economia è anche il presupposto per rimborsare, sia pure con scadenze allungate, una quota significativa e forse anche lo totalità del debito attuale. Teniamo conto che il debito non deve essere portato a zero ma reso sostenibile, in parte diminuendolo e in parte grazie al recupero del Pil. A quel punto diventa anche possibile rifinanziarlo.
Naturalmente tutto questo potrebbe preludere all’introduzione di Monete fiscali nazionali anche da parte di altri Paesi, ed essere il presupposto per, finalmente, risolvere in modo soddisfacente la crisi dell’Eurozona.

Marco Cattaneo è stato ospite di un incontro organizzato da Ferraraitalia, per leggere clicca qui.

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Fabio Zangara



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