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Sono in tanti a chiedersi e a spiegare perché il presidente russo Vladimir Putin abbia deciso di invadere l’Ucraina. Gastone Breccia (L’Espresso 9/2022), per esempio, scrive che “Mosca è tornata a sentirsi  minacciata dall’Occidente. Non senza ragione: difficile non considerare aggressivo – continua – il ruolo militare di un’alleanza (leggi Nato) che tendeva ad ampliarsi fino alle sue frontiere, venendo meno alle assicurazioni offerte all’indomani del dissolvimento dell’Unione Sovietica”.
Una bulimia, è stato detto in casa Sant’Egidio, che ha pensato più a fare economia che politica. È mancata la politica.
“Negli ultimi decenni – rincara Marco Damilano (L’Espresso, stesso numero) – la politica è stata ridotta ad ancella dell’economia liberista, o è stata colonizzata dai nazionalismi di stampo ottocentesco”.
Un’aggiunta significativa, perché se, come spesso si sente dire, si ferma l’occhio solo sugli errori della sponda occidentale, innegabili, l’impressione è che si perda un resto della questione che non è poca cosa.
In entrambi i casi – continua l’ormai ex direttore del settimanale – la democrazia è stata messa nel mirino come pietra d’inciampo, perché democrazia è tensione, processo, cammino, mai approdo e meta raggiunta una volta per sempre. Tutto l’opposto della ricerca del mito fondativo e identitario di una storia concepita come immobile e, assediata dal cambiamento, tesa alla restaurazione di un ordine perduto o minacciato.
Un’idea della storia tremendamente funzionale a disegni di potere.
Quella che Putin ha chiamato, con le parole tipiche della propaganda, un’operazione militare speciale per smilitarizzare e denazificare il suolo ucraino (che detto a un ebreo come il presidente ucraino Zelenski è un’enormità), altro non è che una guerra di un paese aggressore verso uno Stato sovrano e democratico.
Come ha ricostruito Francesca Mannocchi ( “tosta” l’ha giustamente definita Enrico Mentana in una delle sue esemplari dirette tv pomeridiane sulla guerra), ha riconosciuto l’indipendenza delle due regioni separatiste dell’est dell’Ucraina, autoproclamate nel 2014 Repubbliche popolari di Donetsk e di Luhansk, nella regione del Donbass. Territori che si considerano Novorossiya, “Nuova Russia”, conquistati dall’impero zarista nel XVIII secolo.
In un conflitto sanguinoso che dal 2014 si trascina nel Donbass, con il bilancio di 14 mila vittime e con l’impiego da parte ucraina di formazioni filonaziste per contrastare la rivolta separatista, pesano le parole del presidente russo del suo discorso del 21 febbraio scorso: “l’Ucraina non è uno stato ma una colonia, storicamente parte della Russia”.
È la lingua nostalgica e ammirata di Novorossiya, la lingua del grande impero.
E infatti l’offensiva armata non si è fermata al capitolo Donbass, cui si è tentato di porre una soluzione con i barcollanti accordi di Minsk I e II e miseramente naufragati sulla diversa interpretazione circa la cronologia degli impegni: per Mosca prima le elezioni e poi il ritiro dei militari, per Kiev prima il ritiro degli occupanti e poi elezioni secondo la legge.
Le truppe inviate dal Cremlino hanno invaso l’Ucraina e il simbolo è l’assedio di Kiev, perché, come ha scritto Wlodek Goldkorn (sempre su L’Espresso), se Mosca è considerata in questa narrazione la “Terza Roma” (dopo la Città Eterna e Costantinopoli), Kiev è la Gerusalemme dei russi.
Lo sta ripetendo il filosofo Massimo Cacciari davanti a ogni telecamera.
È qui che spazio, luogo e tempo, fanno tutt’uno con il mito della Rus’, le cui radici affondano fino al lontano anno di grazia 988, quando il principe Vladimir (lo stesso nome di Putin) di Kiev (la Gerusalemme dove tutto ha inizio) si convertì al cristianesimo.
Ed è qui che si realizza un’ennesima sutura della restaurazione dello spazio vitale russo con un altro versante che, oltre a quello storico-mitico, aggiunge respiro morale e mistico: quello religioso.
Askanews (7 marzo) ha dato ampio resoconto del sermone pronunciato dal primate della Chiesa ortodossa russa, Kirill, in occasione dell’avvio – il 6 marzo scorso, “domenica del perdono” – della Quaresima, secondo il calendario ortodosso.
Kirill ha dato un significato “metafisico” alla guerra in atto, cioè la resistenza ai valori occidentali, la cui cartina tornasole è il “gay pride”, ossia il peccato condannato dalla Bibbia.
Secondo don Stefano Caprio, docente al Pontificio istituto orientale, è lo stesso patriarca ad avere suggerito a Putin una concezione della Russia come paese chiamato a difendere la vera fede, l’ortodossia nel mondo secolarizzato. Il contenuto ideale che a Putin mancava.
Nonostante i richiami della Conferenza delle chiese europee (Cec) e gli appelli lanciati dagli ortodossi ucraini fedeli al Patriarcato di Costantinopoli e quelli legati a Mosca, Kirill va avanti per la sua strada. A rischio di perdere consensi e il primato universale dell’ortodossia: su 15 Chiese autocefale, quella russa ha ora il 60/70 per cento dei fedeli e se dovesse perdere l’Ucraina il suo peso si ridurrebbe a meno della metà.
Le parole del patriarca Kirill fanno venire in mente quelle dell’oligarca russo Konstantin Malovev che, ai microfoni della trasmissione Report, disse che scopo della fondazione San Basilio il Grande è opporsi all’Internazionale dei Sodomiti.
Sostenitore di Novorossiya, ricorda ancora Damilano, nel 2013 era presente al congresso che incoronò Matteo Salvini segretario nazionale della Lega, il quale nel 2018 volò a Mosca insieme al suo uomo di fiducia Gianluca Savoini per cercare appoggi economici alle elezioni europee 2019 con il seguente programma: “La Nuova Italia costruirà la nuova Europa a fianco della Russia”.
Personaggi come Malovev si aggiungono a figure come Aleksandr Dugin, l’ideologo che parla italiano portato in giro per lo Stivale dallo stesso Salvini e ben noto negli ambienti sovranisti nostrani che gravitano attorno alla destra. Definito da Massimiliano Pananari (L’Espresso 10/2022) il “Rasputin di Putin”, l’ideologo della quarta via politica sostiene “un tradizionalismo imbevuto di richiami ai fascismi, mescolato col neobolscevismo”.
Se queste non sono traveggole, ce n’è abbastanza per leggere un disegno che ha cercato sponde anche fuori confine, e teste, più o meno vuote, sensibili ai richiami securitari di matrice nazionalista e sovranista, in un mondo che da oltre vent’anni passa da una paura all’altra (l’attentato del 2001 a New York, il terrorismo islamico, il crollo finanziario del 2008, la paura pandemica).
Fino a trovare singolari assonanze con l’ex presidente Usa, Donald Trump, che con il suo ex capo della strategia, Steve Bannon in giro a far proseliti, con la riproposizione su sponda atlantica dell’adagio “Dio lo vuole” e il fianco parimenti religioso prestato da un cristianesimo allevato da decenni a pane e tradizionalismo, ha rappresentato il parallelo tentativo di disarticolare l’Unione europea (vedi Brexit).
Per certi versi quel disegno su scala globale pare per il momento stoppato, ma non per Vladimir Putin. Con l’invasione dell’Ucraina, però, ha già perso in partenza, qualunque sarà il risultato.
In primo luogo perché quando questa strage sarà finita (si spera al più presto) non potrà essere lui a sedere al tavolo a negoziare, essendo il responsabile delle vittime che, come ha detto Gino Strada, è la sola verità della guerra, oltre ad avere causato una gigantesca emergenza umanitaria che già adesso si conta a milioni.
Vladimir Putin, inoltre, si è già messo da solo fuori dalla storia, nella quale pretende di avere il posto di uno zar (declinazione in russo del termine Cesare), imponendo con violenza la mistica di un disegno imperiale che si scarica sui corpi inermi di un popolo. Anche il suo.
In terzo luogo, ha di fatto compromesso in partenza lo spazio per la soluzione che, forse, per primo avrebbe voluto. Come potrà trovare posto nell’agenda dei futuri negoziati il tema della neutralità ucraina, se questo risultato fosse raggiunto grazie alle armi? Sarebbe un messaggio destabilizzante sulla scena internazionale, alla disperata e urgente ricerca di un nuovo ordine.
Infine, la stessa metafisica del disegno della Terza Roma contro l’Occidente corrotto, in realtà è una contraddizione in termini, perché ne ripercorre gli stessi cedimenti nella pretesa di possedere l’essenza del tempo e della storia.
Come ha scritto il filosofo Emanuele Severino, che ha letto in profondità il tramonto dell’Occidente, la dinamica dell’eterno consiste nell’errare, ossia ciò che in ogni essere umano è “il mio eterno essere Io del destino”.
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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

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