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“Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.”

Cara Ferrara, la libertà non è uno spazio libero: libertà è partecipazione

Nel 1972 Giorgio Gaber aveva già disegnato la silhouette della democrazia italiana prossima ventura, quella che in seguito abbiamo attraversato come un incubo: prima in bianco e nero e dopo a colori, pieno di lustrini e ragazze svestite, mentre gli onesti e capaci esplodevano nel tritolo.
Questi ultimi 40 anni, iniziati con la rappresentazione catodica della libertà (indirizzata ogni dieci minuti al supermercato con i “consigli per gli acquisti”), non sono passati invano. Le conseguenze sono incalcolabili, ormai impossibili da isolare dal nostro corpo e dalla nostra mente, anche solo per esaminarle – come quando si preleva un frammento di tessuto per una biopsia. La penetrazione capillare del modello catodico di libertà ha modificato la nostra biologia. Le giunzioni delle nostre sinapsi tra un neurone e l’altro sono cambiate, così come tra alcune generazioni nasceranno umani ricurvi e senza vista periferica.
L’incessante, subliminale gocciolare nella nostra fontanella cranica del modello Fininvest e di quel suo terrificante derivato che è la spettacolarizzazione della second life attraverso i social – una vera e propria weltanschauung cha scavalla la fine millennio e inaugura quello successivo, tanto più velenosa in quanto percepita come superficiale – ha trasformato l’idea stessa di “persona di valore”: non è più una persona con dei valori, ma una persona che ce l’ha fatta. Così come una persona con la capacità di coordinare un gruppo di lavoro non basta più: deve esserci un leader.
Nella contesa preelettorale per i prossimi sindaco/a e giunta di Ferrara, i primi passi confermano l’inevitabile trionfo del modello culturale dominante: attenzione, niente affatto subculturale, in quanto tutti ne siamo permeati, in misura diversa. Il candidato principale dell’opposizione che “scioglie la riserva” lo fa al cospetto di centinaia e centinaia di persone che sono accorse al cinema non per parlare, ma per ascoltarlo. E lui non è lì per ascoltare, ma per parlare. Chiedete ad una persona che sospira di sollievo allo “scioglimento della riserva” cosa lo fa scegliere, in questo momento, l’avvocato Fabio Anselmo: il centro storico senza auto? La bonifica delle falde acquifere inquinate? Migliorare la qualità dell’aria nelle zone in cui l’automobile adesso viaggia ai dieci chilometri all’ora, altrochè trenta? Ridare risorse alla sanità territoriale pubblica invece di dover aggirare le liste chiuse a suon di 120 euro a visita? Dare spazio amministrativo al terzo settore, quello fatto di gente che si occupa delle persone fragili facendo supplenza a uno Stato latitante?
Andiamo, su. Non fatela sempre complicata. La risposta è: “con Lui si vince” (del resto lei, Laura Calafà, è stata prima lusingata e poi congedata senza troppi complimenti, perché con lei non si vinceva).
Allora una domanda la faccio io: che differenza passa tra questo modo di dare una delega e l’altro, quello per cui altri l’hanno data ai “brutti sporchi e cattivi”?
Qualcuno la risposta me l’ha data: la qualità della persona.
Giusto. Le persone sono importanti. Quando qualcuno dice “prima i programmi e poi le persone”, quasi sempre mente, anche perchè di solito chi lo dice è un politico di professione, che intende esattamente il contrario.
Ma un cittadino comune che affida la sua delega in bianco a una persona senza avere non dico contribuito a, ma ricevuto un’idea di città, con quale logica lo fa? La mia risposta è: con la stessa logica degli altri. Questo non significa che uno o l’altro sono uguali: se fossimo in un sistema a turno unico in cui sono costretto a scegliere subito tra due alternative secche, non avrei un dubbio. Invece siamo in un sistema in cui, in direzione ostinata e contraria (e forse al tramonto) rispetto al modello culturale che ci ha colonizzato il cervello, sopravvive uno spazio che i cittadini possono riempire, sol che qualcuno gli dia il modo di farlo. La Comune di Ferrara sta facendo questo: sta dando ai cittadini lo spazio e il tempo per esprimere la propria idea di città.
Far esprimere le persone, tutte le persone che vogliono farlo, è una fatica enorme. Intanto bisogna farsi conoscere, e raccontare questa follia, che le persone possono parlare senza filtri sedute a un tavolino e che le loro idee vengono appuntate su un cartellone.  Poi bisogna organizzare gli spazi per ascoltarle, e farlo con delle tecniche che non disperdano le energie in mille rivoli. Poi bisogna fare i conti col fatto che le persone sono abituate a dire cosa non va, ma non sono più abituate a proporre qualcosa. A quello i nostri neuroni non sono più abilitati, non nel dibattito pubblico: nel dibattito pubblico la maggior parte delle persone prende parte come tifoseria. Non sono più abituate nemmeno all’idea di poter scendere in campo: in campo scende quello che ci arriva dal cielo, con l’elicottero.
Fare mediazione e sintesi (comunque indispensabile) partendo realmente dal basso e con queste premesse culturali sedimentate è una vera impresa. Si tratta, dentro un magma caleidoscopico e spesso indistinto di lamentazioni e di embrioni di idee, di fare filtro e sintesi, ma che arrivano dopo una disintermediazione resasi necessaria dalla caduta verticale della fiducia nei soggetti deputati: i partiti. Non è populismo, è aritmetica: basta fare il conto di quanta gente non va più a votare, dando purtroppo un oggettivo contributo alla vittoria dei “brutti sporchi e cattivi”. Ma questa è tutta gente menefreghista, priva di idee, che pensa solo ai cavoli propri, per la quale “sono tutti uguali”?
No. Lo dimostra la crescente partecipazione agli incontri de La Comune. Minoritaria? Riserva indiana? Invito semplicemente a riflettere sulla differenza di metodo. Da una parte ci sono coloro che parlano di sé, dall’altra un gruppo di persone che danno uno spazio per parlare di sé. Per partecipare, e non solo attraverso il televoto, che è divenuta la forma più apprezzata di democrazia diretta.
Detta così può sembrare la descrizione di un gruppo di autoaiuto. Invece potrebbe essere un salutare ritorno agli anni settanta dell’individualista disperatamente collettivo Gaber, prima che le stragi e il tubo catodico ammazzassero i giusti e i neuroni.
La campagna elettorale è appena iniziata. Non esiste nessun dubbio sul comune avversario cui togliere la sedia dal sedere. La differenza sta nel decidere di farlo senza cambiare nulla nel nostro modo di ragionare, che è ormai quello di delegare la risoluzione dei nostri problemi ad un supereroe o ad un furfante; oppure nel provare ad essere cittadini attivi e contribuire alla scrittura di un programma per cambiare Ferrara, e che può essere utile a chiunque diventerà sindaco. C’è ancora tempo e modo: infatti quello de La Comune di Ferrara si chiama “quasi programma”. 
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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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