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  • Oggi si parla tanto di raccontare storie (o meglio di raccontare tout court o “comunicare attraverso racconti”, vedremo poi perché…), di “storytelling” e di “storytelling aziendale” (o “corporate”), tutti sembrano vogliano narrare qualcosa e molti pensano di saperlo fare.

Ma cos’è questo fantomatico “storytelling”? Domanda seria e impegnativa.

Abbiamo cercato in rete varie definizioni, letto diversi manuali e articoli e dopo aver anche frequentato un bel corso in merito (arrivando a comprendere subito che non è mai abbastanza), siamo giunti alla conclusione che le migliori riflessioni in merito restano quelle di Daniele Orzati, storytelling designer di Storyfactory: la prima realtà italiana di “Corporate Storytelling”, che unisce esperti di apprendimento organizzativo e marketing narrativo con un gruppo di professionisti di comunicazione visiva, curatori d’arte contemporanea e di progetti editoriali, designer grafici e video-maker. Un team di professionisti la cui missione è quella di aiutare l’impresa a esprimere la propria identità e il proprio capitale narrativo. In diverse interviste, Orzati ha spiegato anche come è giunto a occuparsi di storytelling.
La motivazione principale? La voglia di diventare uno scrittore e il culto per la perfezione formale, il cercare metodi sempre più raffinati per farlo in maniera sistematica. Per poi rendersi conto che di tutto questo si poteva fare tranquillamente a meno. Nel frattempo il bagaglio accumulato di modalità tecniche e strumenti, che potevano servire per la scrittura destinata alla comunicazione corporate, veniva completato dall’incontro con Andrea Fontana, il fondatore di Storyfactory. Ed ecco l’impiego in termini lavorativi.
Alla domanda su cosa sia lo storytelling, Orzati risponde partendo dalla semplificazione della collega Francesca Marchegiano: “la forma basilare della fiaba, con i suoi quattro momenti: c‘era una volta… ma purtroppo… per fortuna… alla fine… Quattro momenti che includono tanti sotto-elementi fondamentali per l’articolazione narrativa. Ma il nocciolo è che senza i “ma purtroppo” non accade nulla, non si articola la contrapposizione tra valore e disvalore. La linea di demarcazione tra comunicazione e narrazione non è netta, in parte può esserci una sovrapposizione. E cioè: nella comunicazione possiamo trovare elementi di grammatica del racconto, così come un racconto può essere infarcito di elementi puramente informativi. Ciò che solitamente manca alle classiche forme di comunicazione, soprattutto all’advertising, è quello che chiamiamo “sistema dei conflitti”. I “ma purtroppo” si pescano proprio da questo sistema: senza “fatal flaw” non c’è impresa di sanamento da compiere, senza avversari/nemici non ci sono aiutanti/amici, senza sfide non ci sono tesori. Una vita di felicità costante fa solo invidia, e quindi distanzia, mentre le difficoltà generano compassione, e la compassione avvicina”.
Una storia quindi implica empatia, quella di un’azienda è una rappresentazione (testuale e visiva) di un’organizzazione, che allinea i contenuti e gli immaginari del racconto d’impresa con i diversi strumenti, per declinarli su diversi pubblici, un approccio che progetta e guida identità e relazioni d’impresa attraverso le tecniche del racconto per creare valore. Il segreto? Conoscere la storia-racconto degli altri. Tutti vogliamo capire e ritrovarci in un racconto, esso ha ripercussioni psicologiche importanti: quando una persona racconta e un’altra ascolta attivamente (o legge), i cervelli si sincronizzano. E se la storia, per definizione, è una mera cronologia di fatti, il racconto è una rappresentazione. Basti confrontare una descrizione fattuale e cronologica di una compagnia su wikipedia e cercarne poi il profilo aziendale dove magari un video illuminato e attraente ne descriva alcune caratteristiche salienti e accattivanti, oltre che coinvolgenti.

Premesso questo, vediamo ora i sette segreti dello “storytelling” di Andrea Fontana: penetrazione, molteplicità, costruire un mondo, estraibilità, serialità, soggettività, performance. Sono tutti elementi interessanti e che meritano una riflessione.

Stoytelling

Penetrazione: una narrazione penetra nelle storie di vita dei suoi lettori e ne determina nuovi percorsi. Si tratta di quello cui si accennava, l’empatia. Entrare in contatto con il lettore e farlo sentire parte del racconto è la sfida di chi fa “storytelling”. Ricordo una campagna di una compagnia di telefonia mobile, dove si invitava lo spettatore a comunicare non solo con la tecnologia, ma anche diversamente. E subito si va indietro con la memoria e si prende il telefono per chiamare un amico o un anziano genitore che non si sente da tempo…

Molteplicità: una narrazione oggi è trans-mediale, entra ed esce da più canali comunicativi. Le vie della comunicazione oggi sono infinite. Piattaforme di ogni genere e social media vari permettono di diffondere un racconto nel mondo, in tempo reale, con pochi clic…

Costruire un mondo: una storia genera sempre un mondo. Il prodotto mediale è uno spazio che talvolta (spesso, direi) entra in relazione con la vita quotidiana. Intorno a noi, ogni vita una storia, ne abbiamo parlato, basta fermarsi a pensare, anche solo un attimo (vedi).

Estraibilità: il mondo della narrazione diventa parte integrante del mondo reale e dalla storia si estraggono linee di sviluppo della nostra identità. Un racconto può facilmente aiutarci, orientarci e farci trovare una via prima solo intravista o del tutto sfuggita.

Serialità: i racconti oggi si aprono, si chiudono e si riaprono. Non solo i pezzi di storia sono dispersi su diversi segmenti all’interno dello stesso medium ma si diffondono in media diversi. Una catena spesso virtuosa, se ben compresa e ben gestita.

Soggettività: le narrazioni (politiche, organizzative, di consumo) sono sempre più soggettive. Si affidano al punto di vista di un personaggio / autore del racconto. Questo genera maggior identificazione. Rivederci in un racconto non è difficile, se ben scritto.

Performance: una narrazione genera una performance di attivazione in termini culturali, è un cultural activators: una attività che dà a tutta la comunità qualcosa da fare. Spesso sulla base di un racconto importante, ci svegliamo, ci attiviamo, reagiamo, vediamo. Ragioniamo, approfondiamo e cerchiamo di capire, questo conta.

Le riflessioni potrebbe continuare, la materia è troppo interessante e soprattutto in evoluzione. Ce ne sarà l’occasione. Certo resta che provare a fare “storytelling”, soprattutto aziendale, non è semplice ma sfidante, per chiunque scriva. Provare per credere (vedi).

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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