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Una moschea e una chiesa, un campanile e un minareto, il suono delle campane e del richiamo del muezzin convivono, uno accanto all’altro, quasi a braccetto, in uno sperduto, roccioso e polveroso villaggio del Libano (i set sono stati tre villaggi, Douma, Mechmech e Taybeh), insieme ai loro abitanti, che tentano di coltivare pace e armonia quotidiane.

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‘E ora dove andiamo?’ Locandina del film

Protagoniste di E ora dove andiamo?, oltre alla numerosa e variegata comunità, composta di cristiani e musulmani (a volte anche un po’ stralunati), un gruppo di donne, amiche fedeli e unite, indifferenti alle rispettive religiosità, desiderose unicamente di mantenere un equilibrio comunitario tanto difficilmente raggiunto e, a dire il vero, abbastanza precario.
Questo film è sicuramente sulle donne, per le donne, fra le donne e con le donne. E’ un inno al loro coraggio, alla loro voglia di fare, al forte spirito di pace, all’intelligenza e arguzia nel gestire l’indole e l’animo maschili (permettetemi) spesso rissosi e indifferenti ai sentimenti di amicizia e di rispetto reciproco delle differenze, oltre che alla necessità di convivenze pacifiche e armoniose.
Mantenendo lo sguardo sul mondo femminile, fatto di madri, nonne, mogli e sorelle coraggiose, ci troviamo di fronte ad autentiche pennellate di tratti di una società giunta a un passo dall’implosione. Non siamo di fronte a un film sulla guerra ma a al tentativo, piuttosto, di spiegare come evitare che scoppi, grazie a figure come Amale, Takla, Yvonne, Afaf e Saydeh, cinque vedove che s’incontrano ogni giorno per recarsi al cimitero in cui sono sepolti i loro uomini, costrette a fermare odio e intolleranza di mariti, figli, padri e zii, accecati dall’integralismo religioso.

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Una scene del film ‘E ora dove andiamo?’

Diretto dalla talentuosa regista dell’intenso Caramel, Nadine Labaki, questo secondo film rappresenta una bellissima sorpresa, perché la stessa Labaki, oltre a dirigerlo e co-sceneggiarlo, lo interpreta in maniera attenta e forte, riuscendo a trattare il tema attuale dell’integralismo in maniera delicata e con l’humour tipico del tratto femminile che contraddistingue tutto il suo lavoro.
Si spazia, quindi, dal musical al dramma di una vera favola moderna. Perché, in effetti, nel film ci sono molti momenti che richiamano la fiaba. Come quando vediamo sullo schermo una comunità mista apparentemente felice, unita, anche se visibilmente povera e fuori dal mondo; quando guardiamo le scene della canzone d’amore “pensata” da Amale e Rabih (l’amore impossibile fra una cristiana e un musulmano); quando ascoltiamo musica etnica o vediamo sfilare il carosello iniziale, in nera divisa da lutto, che si trasforma in un singolare e ancheggiante balletto; quando ci soffermiamo sulle immagini di un televisore, che i ragazzi del villaggio riescono a installare, per una visione collettiva in piazza, attorno al quale stanno tutti gioiosamente seduti. Sorridiamo, poi, di fronte alla caotica lite inventata e provocata dalle donne per non permettere, a mariti e figli, di sentire le notizie sulle lotte religiose interne al Libano. Tuttavia, man mano che queste informazioni arrivano al paese, iniziano a verificarsi strani fenomeni, come l’ingresso di animali nella sacra moschea o il ritrovamento di sangue nell’acquasantiera della chiesa. Il dubbio, il sospetto, la paura, l’inimicizia, l’intolleranza, la violenza e il livore iniziano a serpeggiare. L’equilibrio instaurato negli anni rivela di essere appeso a un filo, forse legato unicamente alla forte volontà femminile di mantenere la pace ad ogni costo. Terrorizzate dall’idea di dover tornare a seppellire i propri cari, le donne del villaggio fanno di tutto per mettere a freno l’ardore dei mariti, cercando di distrarli in qualsiasi modo possibile e immaginabile dalla terribile minaccia. Esse tentano, allora, di sollevare gli animi e alleviare le tensioni, escogitando diversi metodi, come l’invito di bionde ballerine ucraine che improvvisano una sensuale danza del ventre o il ricorso all’hashish (simpaticamente mescolato a torte e focacce servite durante una festa nel villaggio, perché “con un pizzico di hashish stramazzi un cammello”). Tutto sembra inutile e la situazione continua a precipitare, inesorabilmente.

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Una scena del film ‘E ora dove andiamo?’

A volte le scene colorate, suadenti ed evocative, sanno di surreale (vi sono anche scene tipiche di un bel burlesque) quanto di sublime, di onirico quanto di drammatico.
Lacrime e risate s’intercalano, così come si mescolano uomini e donne imperfetti, imam e parroci (alla fine, tutti fratelli e uguali), veli e capi scoperti, croci, statuette e tappetini.
Allora, sotto il sole soffocante di mezzogiorno, durante l’ennesimo lutto, una domanda magari un po’ visionaria ci nasce spontanea: le donne salveranno forse il mondo?

E ora dove andiamo? Di Nadine Labaki, Francia-Libano-Italia-Egitto, 2011, 110 mn, con Nadine Labaki, Claude Msawbaa, Layla Hakim, Yvonne Maalouf, Antoinette Noufaily, Petra Saghbini, Ali Haidar, Kevin Abboud, Mostafa Al Sakka, Julien Farhat, Anjo Rihane, Samir Awad, Ziad Abou Absi

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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