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A FerraraItalia avevamo inizialmente deciso di non parlare di coronavirus, cosa diventata impossibile con il rapido dispiegarsi del contagio; non lo faremo comunque nelle righe seguenti, se non a mo’ di introduzione.

Fin dall’inizio dell’epidemia, la grande presenza cinese nel continente africano non aveva mancato di sollevare preoccupazioni circa la probabile diffusione della malattia in Africa e i possibili contagi che ne sarebbero potuti derivare anche in Italia, per il tramite dei flussi migratori mediterranei. Una preoccupazione anche comprensibile per quanti non conoscono la reale portata della quantità di spostamenti di persone, che, per i più svariati motivi, si muovono sul pianeta. Ad oggi questo non sembra ancora essere successo, preferendo il signor virus viaggiare in business class aerea, anziché affrontare perigliosi tragitti per deserto e per mare.
In Africa però ci sono – oltre a questo e sperando che l’epidemia non dilaghi anche in quelle contrade – ben più gravi problemi: l’ultimo ci rimanda direttamente alla più nota delle piaghe d’Egitto: l’invasione delle locuste. Miliardi di ortotteri che si riproducono vorticosamente e sciamano divorando tutti i raccolti e le piantagioni che trovano sulla loro strada, mettendo alla fame milioni di persone che già vivono in condizioni di grave povertà. Una situazione assolutamente drammatica, per fronteggiare la quale, i paesi africani coinvolti (Kenya, Uganda, Somalia, Etiopia, Sud Sudan, Congo…) hanno chiesto aiuto urgente agli organismi internazionali. Si tratta di un flagello che, sommandosi ad altre fragilità endemiche, non mancherà di avere effetti anche sui flussi migratori regionali e globali.

Un’ invasione di queste proporzioni (che si sta allargando verso la penisola Arabica, l’Iran già in crisi per il coronavirus e l’Oriente) è fortemente associata al cambiamento climatico che, nell’Africa nera, sta facendo danni gravissimi. Desertificazione, siccità e conseguenti carestie (si pensi a quella tragica del Sahel) sono la conseguenza di un processo globale, che da quelle parti è assolutamente concreto, visibile più che altrove e che va considerato nelle sue conseguenze brutali, a prescindere da quali ne siano le cause (riscaldamento globale dovuto ad attività antropiche, cicli naturali o intreccio delle due).
L’invasione di locuste è resa ancor più drammatica da un situazione demografica in forte mutamento: in Africa l’esplosione demografica è decisamente preoccupante e totalmente fuori controllo: il continente aveva 221 milioni di abitanti nel 1950, 408 milioni nel 1975, 767 milioni nel 2000 e oggi ha superato abbondantemente gli 1,3 miliardi di persone.

Effetti del cambiamento climatico e dell’esplosione demografica richiederebbero azioni di mitigazione e controllo, possibili solo attraverso l’implementazione di politiche ambientali ed agricole, sociali e sanitarie, di vasto respiro e di lunga durata, per evitare che ogni problema diventi una disastrosa emergenza che si affronta sempre in ritardo. Azioni che, oggi, solo degli Stati capaci di esercitare una sovranità ambientale, agricola, alimentare (tema questo carissimo a Carlìn Petrini e al movimento Slow Food), una sovranità economica e politica che possa fungere da solida base anche per la cooperazione internazionale, potrebbero garantire.
In Africa – specialmente nell’Africa sub sahariana – vi è però una situazione ben diversa e colpevolmente sottaciuta: Stati deboli, poveri, in balia di forze esterne, incapaci di imporre regole legittime, governati non di rado da elites corrotte e in troppi casi incapaci di prendersi cura della maggioranza dei propri cittadini. In tale situazione diventa perfino impossibile trovare i 140 milioni di dollari stimati dalla FAO, che sarebbero indispensabili per affrontare l’emergenza locuste: una cifra francamente risibile per uno stato (giusto per avere un ordine di confronto si stima che il costo di 1 solo F35 sia di 90 milioni di dollari).
Stati dunque che spesso non sono in grado di garantire sicurezza sanitaria e sociale, che non sanno o non possono trattenere il valore aggiunto generabile dalle loro ricchezze naturali, utilizzarlo per svilupparsi compatibilmente con le loro culture, e redistribuirlo equamente tra le persone. Stati non a caso in balia delle multinazionali e delle potenze straniere, indebitati fino al collo e per ciò stesso ostaggi del FMI e della Banca Mondiale. Stati in costante crisi umanitaria che sembrano mostrare la loro esistenza più attraverso il volto repressivo dei loro eserciti (sempre troppo ben armati) che attraverso le strutture indispensabili (grande business della Cina in Africa) e i servizi necessari a garantire una vita pacifica e laboriosa agli abitanti.

L’insostenibilità del debito era stata ben riconosciuta da due leader opposti e lontani come Thomas Sankara (1949-1987) e Bettino Craxi (1934-2000) che sottolineavano, appunto, la necessità di liberare i paesi africani dalle catene del debito; tema molto sentito anche da certa sinistra cattolica e dal compianto Giovanni Bianchi (1939-2017) che fu relatore della legge per la remissione del debito dei paesi del terzo mondo, iniziativa lodevole quando utile, mai veramente applicata. Un tema che sembra oggi impossibile da affrontare, poiché il cappio del debito stringe al collo tutti gli stati, compresa come ben sappiamo l’Italia.
Mettere quegli stati in condizione di funzionare bene sembrerebbe, a lume di buon senso, soluzione auspicabile ed urgente per sollevare l’intero continente da una situazione disastrosa, cosa che andrebbe a vantaggio di tutti a livello globale; chissà se anche in quelle contrade questa ipotesi varrebbe un’accusa infamante di sovranismo, un’imputazione di populismo o, peggio, una pronta eliminazione fisica, come è successo a più di un leader africano, che aveva tentato di percorrere questa strada.

Tra epidemie, ebola e febbre emorragica, coronavirus incombente e cavallette fameliche resta il fatto che in Italia (e in Europa) non ci si può più permettere di ignorare quel che succede in Africa, riducendo il dramma di un intero continente allo scontro sull’apertura o chiusura dei porti, ai sospetti circa i traffici delle ONG o alla retorica del business dell’accoglienza. Un’attenzione diffusa verso il continente che vada al di là del pietismo e dell’elemosina pelosa, è non solo doverosa, ma anche saggia e previdente. Per chi si crogiola nel pessimismo, l’Africa potrebbe infatti essere l’anticipazione di un terribile futuro distopico globalizzato; per chi guarda al futuro con maggiore ottimismo la sfida potrebbe essere invece il luogo da cui far partire un grande cambiamento positivo globale.

E se si accetta francamente la sfida, virus e cavallette, epidemie e migrazioni forzate, dovrebbero pur insegnarci qualcosa: forse la natura ci sta dicendo che l’attuale dinamica della globalizzazione ha preso una strada sbagliata, che è quantomai urgente ammettere il fallimento di un certo capitalismo predatorio e pensare a nuove soluzioni; indirettamente ci sta dicendo che, perché ci sia globalizzazione buona, è indispensabile che anche gli stati più poveri diventino protagonisti del loro futuro, garantendo innanzitutto un tenore di vita dignitoso a quanti vivono all’interno dei loro confini.
In assenza di questo salto di qualità diventerà sempre più difficile prevedere e regolare emergenze che diventano rapidamente globali e hanno ricadute drammaticamente imprevedibili per tutti. Come dovremo imparare dalla diffusione del coronavirus e dalla biblica e quanto mai attuale piaga dell’invasione delle locuste.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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