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La definiscono la crisi simmetrica, cercando con questa definizione di metterla in fila a altri momenti critici della nostra storia recente, come la crisi del 2008, quasi a renderla più gestibile, ma si rendono ciechi.
Con questa definizione che vuole essere tranquillizzante si rendono ciechi, più o meno in buona fede, e incapaci a riconoscere in questo momento storico una novità e una complessità che secondo me ha l’eguale o per lo meno il comparabile, nella comparsa dell’homo sapiens sulla terra.

C’è la crisi del sistema climatico che ha stravolto la ciclicità delle stagioni su tutto il pianeta mettendo a rischio il mondo agricolo e dell’allevamento che da quel sistema dipende direttamente, che prelude a tempi di grande siccità a momenti di grandi alluvioni sempre più frequenti e violenti nel loro manifestarsi. Queste rappresentano in maniera molto esplicita la qualità del pensiero che ispira i nostri comportamenti che sono di sopraffazione del più forte sul più debole che preferisce la violenza del bisogno e la fatalità della necessità, alla ricerca e costruzione delle relazioni umane e sociali.
Questo dissesto è stato provocato e costruito dalla logica del consumo di cui l’essere umano è l’origine, pur sapendo che queste risorse sono finite e che per rigenerarsi richiedono un tempo che non corrisponde certo alla velocità dei nostri spostamenti di cose e di persone.

C’è la crisi economica accelerata e resa più devastante e violenta perché simultanea in tutto il pianeta. La pandemia ha messo in evidenza la stratificazione degli elementi di squilibrio non solo economico ma logistico e distributivo della cosiddetta globalizzazione e conseguente finanziarizzazione che ha creato spazi di desertificazione non solo di territori ma di città.
Tutto questo è stato possibile isolando le città  dai loro territori, assediandole con i capannoni dei centri commerciali e ponendole in questo modo in contrapposizione tra loro, il mondo rurale contro il mondo urbano, il mondo tradizionale con il moderno, lo statico contro il dinamico, come se queste realtà fossero realmente così, come se queste contrapposizioni fossero vere.
Conseguenza logica e diretta dell’aver ridotto la complessità della qualità della vita alla logica del profitto, scopo ultimo del consumo. Si è ridotta la diversità dei territori del mondo, ad un unico modello quello statunitense, che ha a disposizione larghi spazi omogenei di territori e di clima, la produzione agricola e la sua raccolta e distribuzione, sacrificando la diversificazione delle colture.
Soprattutto in Italia che ha un territorio composto da molteplicità di situazioni territoriali, climatiche e perciò storico-sociali assolutamente diversificate e che vede questa sua ricchezza di diversità come elemento negativo che è di ostacolo al modello produttivo dominante. Questo, oltre a desertificare i territori, in Italia ha desertificato le città, trasformandole quando va bene in musei all’aria aperta, trasformando la nostra storia in una nostalgica memoria di un tempo perduto, invece di considerarlo il nostro patrimonio sociale, culturale, politico ed economico a cui attingere e far riferimento per la nostra evoluzione storica e di civiltà.

C’è la crisi della democrazia che fino ad oggi rimaneva sottotraccia e poco visibile ai più perché troppo presi a guadagnare la sopravvivenza che in questi ultimi vent’anni è diventata il problema principale per la maggior parte dell’umanità compresi i paesi più evoluti e ricchi che, per un piatto di lenticchie, hanno svenduto la loro primogenitura di società in grado di realizzare nella storia un mondo di giustizia e di  qualità umana degna di questo nome. Infatti hanno svenduto la loro capacità di vivere la libertà per un briciolo di sicurezza, per mantenere i loro privilegi, senza capire a quale dono rinunciavano, senza capire che sopprimevano la speranza per la maggior parte dell’umanità.

C’è la crisi sociale che ha raggiunto livelli insostenibili sia per le società che costringono all’emigrazione i propri cittadini, sia per quelle che subiscono immigrazione che vedono sempre più velocemente ridursi gli spazi di sopravvivenza di un minimo di qualità della vita sempre più insostenibile per la diffusione planetaria degli avvenimenti.

C’è la crisi sanitaria che ha messo in evidenza gli squilibri che la scelta liberista ha prodotto nel mondo e il conseguente impoverimento culturale necessario all’invadenza di questo modello economico -sociale che vuole una umanità definita dal bisogno della condizione del presente senza alcuno spazio aperto ad un futuro possibile e diverso.

A questo è funzionale lo strapotere della burocrazia che in nome della norma e della sicurezza ha reso quasi impossibile l’evoluzione sociale esercitando un controllo sempre più stringente degno dei regimi totalitari e trattando i cittadini come bambini incapaci di intendere e di volere, salvo che per pochissimi privilegiati. Tutto questo aggravato dalla velocità dell’accadimento degli avvenimenti e dalla centralizzazione degli strumenti tecnologici che invece di essere utilizzati per distribuire ricchezza e conoscenza vengono utilizzati a privilegiare sempre meno individui e a concentrare sempre di più il loro governo e i loro profitti a tutte le dimensioni.

A conseguenza diretta di questa centralizzazione tecnologica c’è la crisi dell’informazione che non è più  libera perché le agenzie sono tutte private quindi non al servizio della democrazia ma del profitto. Perciò chi possiede la proprietà non sempre ha interesse a divulgare le informazioni, se non quelle che sono funzionali al suo business.

C’è una inusitata convergenza a livello planetario di tutte queste sfaccettature della società umana in una crisi culturale e antropologica che molto probabilmente più che essere un effetto è la vera causa di questo sconquasso globale che viene definita l’era dell’antropocene dove l’essere umano viene descritto come il vero cancro del mondo naturale che non deve far altro che programmare la propria estinzione o per lo meno il proprio drastico ridimensionamento fino a diventare una realtà irrilevante nell’ordine naturale. Siamo arrivati al punto che dobbiamo decidere cosa vogliamo essere e diventare come esseri umani: vogliamo estinguerci come una specie animale violenta e predatrice o vogliamo inaugurare la storia  di una nuova umanità? Possiamo continuare a definirci esseri limitati fin dalla nostra origine dal nostro essere malvagi, incapaci di fare autonomamente scelte costruttive se non guidati da qualcuno più grande di noi oppure dal caso che per sua natura sceglie il più forte, oppure iniziamo a riconoscere la nostra umanità desiderante di bene e perciò capace di operare scelte che trasformano in meglio la realtà.
Possiamo  iniziare a riconoscere nella nostra umanità il senso dell’intera creazione, che è in attesa che l’umanità trasformi la singolare libertà di essere, in espressione della propria unicità come un ulteriore spazio di libertà per tutti. Questo può avvenire solo nella reciproca capacità di riconoscersi come meravigliosa novità e sceglierci come amici.

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Grazia Baroni

Grazia Baroni, è nata a Torino nel 1951. Dopo il diploma di liceo artistico e l’abilitazione all’insegnamento si è laureata in architettura e ha insegnato disegno e storia dell’arte nella scuola superiore durante la sua trentennale carriera. Ha partecipato alla fondazione della cooperativa Centro Ricerche di Sviluppo del Territorio (CRST) e collaborato ad alcuni lavori del Centro Lavoro Integrato sul Territorio (CELIT). E’ socia e collaboratrice del Centro Culturale e Associazione Familiare Nova Cana. Dal 2016, anno della sua fondazione, fa parte del gruppo Molecole, un momento di ricerca e di lavoro sul bene, per creare e conoscere, scoprendo e dialogando con altre molecole positive e provare a porsi come elementi catalizzatori del cambiamento. Fra i temi affrontati dal gruppo c’è lo studio e dibattito sulla Burocrazia, studio e invio di un questionario allargato sulla felicità, sul suo significato e visione, lavori progettuali sulla felicità, in corso.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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